Serata interessante dopo una pausa di due giorni per la quinta edizione di teatri di vetro, tutta al femminile, che esplora dversi percorsi del teatro contemporaneo.
Si comincia con Teatro Rebis (Macerata) che ha presentato Di una specie cattiva una istallazione drammaturgica ambiziosa e suggestiva. Lo spettacolo si costruisce attorno alla de-strutturazione del racconto su una voce monologante (registrata) che sviluppa per suggestioni e lacerti a-narrativi, il percorso emotivo di una donna che non sa riconoscersi nel classico ruolo di femmina (le mestruazioni e i tacchi a spillo come elementi simbolo di questa condizione) né in quello materno (dove il ventre diventa una pancia piena di mele).
A questo racconto rarefatto e suggestivo ma a tratti anche prevedibile (il richiamo alla luna...) corrisponde una doppia ricerca visiva. In scena l'attrice, che emerge prima da un cumulo di materiale bianco (stoffa? carta?), bardata con una tuta color carne che la fa apparire calva e asessuata (ma il segno grafico del costume non è neutro, si vedono cuciture e frammenti organici lungo tutta la superficie) si muove sulla scena alla ricerca di un segno espressivo forte. Si muove circospetta, sale su una sedia dove mima i gesti di una dattilografa, si muove armeggiando con una seconda tuta-calzamaglia che tiene per le mani e per i piedi estendendola per costruire figure geometriche o, meglio, deformazioni organiche di un corpo umano. Alcune presenze discrete compaiono sulla scena, una flebo piena di sangue, delle scarpe da bambino, mentre due altri performer la aiutano a dislocarsi nello spazio e abitarlo quasi contemporaneamente in più punti. Un complesso gioco di proiezioni video ci immette in uno spazio altro nel quale percepiamo delle presenze umane (decapitate?) anonime, apparentemente immobili, su più livelli (una presenza femminile su un muro mentre tutti gli altri percorrono una strada posta al di sotto) segni di un mondo esteriore complesso filtrato dall'interiorità di cui lo spettacolo è rappresentazione.
Lo spettacolo è messo in scena con impeccabile precisione, tutto è eseguito con pulizia e con un segno distintivo forte e chiaro imponendosi vieppiù dalla caratteristica di segno contrario (esecuzioni sporche come cosciente scelta di cifra stilistica), che ha caratterizzato alcuni spettacoli delle serate precedenti di questa quinta edizione di Teatri di Vetro.
Seguendo alcuni elementi del racconto (l'incapacità a sentirsi maschile o femminile dell'io narrato, il sentimento di inadeguatezza rispetto quanto ci si attende da lei) si riconoscono istintivamente alcuni stilemi di Sylvia Plath anche se nelle poche righe riportate sul programma non se ne fa menzione. E' grazie alla fanzine Susanna (preziosissimo strumento di approfondimento di questa quinta edizione) che è esplicitato il riferimento a Sylvia Plat.
Di una specie cattiva si rifà a un poemetto che Eleonora Sarti ha ricavato da estratti degli scritti di Plath ricavandone un racconto sul rapporto conflittuale di una donna con la maternità. Per cui l'universo di questa interiorità di cui lo spettacolo è rappresentazione è quello della poetessa statunitense che morì suicida a soli 31 anni (poco dopo esser diventata mamma).
Senza voler scadere in sociologismi superficiali l'universo poetico di Sylvia Plath (la sua difficoltà ad aderire alla funzione materna, l'imbarazzo per il sanguinamento mestruale, etc. riportati icasticamente nello spettacolo) nascono e sono la cifra di una donna di estrazione borghese dall'intelligenza acuta che è vissuta in un periodo in cui alle donne non era ancora socialmente permesso (soprattutto in certi ambienti puritani statunitensi) di occuparsi di altro rispetto quanto afferente al concetto di femminilità dell'epoca, e cioè la cura della casa, dei figli, del proprio corpo secondo precisi canoni femminili. Questo spiega, almeno in parte, il disagio di Plath nei conrronti di quelli che oggi consideriamo senza ombra di dubbio dei cliché sessisti.
Di una specie cattiva è costruito intorno a una generalizzaione icastica a-temporale di queste problematiche che da un lato paiono vetuste (possibile che nel 2011 il problema della donna sia ancora quello della maternità de del ciclo?) e dall'altro vetero-sessiste. Della donna e non già di una donna perchè l'etereità della progressione drammaturgica non permette di identificare il femminile rappresentato come quello di una precisa e individuabile personalità ma come una istanza universale quasi fastidiosa nella sua totale mancanza di leggerezza (quella cdi cui parlava Calvino) sfiorando la presunzione di chi si prende troppo sul serio.
Non stiamo parlando del contenuto della drammaturgia ma proprio dell'istanza comunicativa così ieratica e solenne da risultare ostica anche per lo scarto tra la messinscena e le questioni messe in campo conin quella messinscena.
Cui prodest? Cosa si comunica allo spettatore? Cosa rimane di Silvia Plath o della donna nella società contemporanea (o in quella coeva della poeta?).
Sono domande alle quali crediamo che ogni spettacolo debba rispondere (cosa vuoi comunicare e non solamente come lo comunichi) anche quando lo spettacolo propone una estetica lontana e diversa da quella che queste domande implicano quella cioè di un'arte per l'arte che si staglia fieramente solitaria in una società sempre più priva di strumenti per rielaborare l'immaginario collettivo delle persone (il pubblico) che vengono chiamate ad assistervi.
Di una specie cattiva
con silvia sassetti
regia andrea fazzini
pre-testo eleonora sarti
scenografia nicola bruschi
musiche paolo marzocchi, gianluca gentili
disegno luci marcello d’agostino
collaborazione coreografica yumiko yoshioka
elaborazioni sonore stefano sasso
fonica andrea lambertucci
voce maschile giulio carinelli
voce femminile silvia sassetti
montaggio video marco di cosmo
supporto tecnico stefano giaroni
costumi massimo eleonori
ombre meri bracalente, lorenzo pennacchietti
Secondo spettacolo della serata, nel suggestivo cortile della Casa del Bimbo di Garbatella, è Stelle Danzanti - Storie di Donne dalle carceri di Chiara Tomarelli.
Tomarelli da anni si dedica a un teatro di ricerca e di denuncia femminili per dare voce a eventi e situazioni troppo spesso dimenticate o tenute nascoste, non facilmente accessibili come si legge nel programma di sala. Nucleo dell'indagine sono le carceri femminili e le loro abitanti che Tomarelli, in scena, paragona a dei buchi neri che altro non sono altro che delle stelle implose. Stelle buie che nessuno vede, al di là del muro penitenziario che occulta le carcerate al resto della cittadinanza.
Lo spettacolo è costruito su due direttive. C'è una narratrice che ci spiega da come è nata la sua curiosità per l'universo carcerario facendolo risalire ai suoi ricordi d'infanzia (la nonna che abitava a via delle Mantellate, vicino al carcere di Regina Coeli di Roma) e ci sono le testimonianze dirette di varie carcerate raccolte dall'autrice e interpretate dall'attrice che, con l'ausilio di un indumento e di un cambio di luci, entra ed esce dalle varie carcerate che interpreta, con notevole bravura, dimostrando una capacità non indifferente nell'uso dei dialetti, resi con convinzione e credibilità.
Le testimonianze sono tutte molto personali e tratteggiate velocemente: c'è la madre che vede la figlia di tre anni lasciare il carcere perchè così vuole la legge; quella che non riesce a dormire la notte perché non c'è mai abbastanza buio; la detenuta euforizzata dalla sistemazione nella cella; quella moldava che racconta di come, raggiunta l'Italia, sia stata introdotta in un giro di schiavitù e prostituzione.
Tra una testimonianza e l'altra c'è sempre un commento della narratrice-interprete, che commenta comportamenti e vissuto, fornisce dati, cifre, statistiche, spiegandoci come vengano usate dai mezzi di informazione per far passare le notizie sulle carceri in maniera asettica, nascondendo le persone dietro dei numeri. Si sottolinea così l'iter legislativo che dal 1975 ha cercato di modificare la condizione dei detenuti, denunciando il sovraffollamento delle prigioni, le cifre elevate di danaro per mantenere vecchie carceri, con le quali si potrebbero costruire carceri nuove.
Uno spettacolo di informazione prima ancora che di denuncia e solo per questo non può che essere encomiato. Ma qualcosa nella forma drammaturgica non convince appieno.
Lascia perplessi la scelta di interpretare direttamente le carcerate intervistate (cui l'attrice, prima o dopo averle interpretate si riferisce sempre citando nome e carcere di detenzione). Nel tentativo di portare in scena la testimonianza raccolta nel suo percorso, Tomarelli crede, in buona fede e con le migliori intenzioni, che debba farsi strumento espressivo delle persone che ha intervistato, diventando via via ognuna di loro, direttamente e tout-court.
A differenza del cinema o della televisione che, grazie alla riproduzione fotografica, già nei pochi tratti della postura, della parlata, oltre che della fisionomia, mostra le persone chiamate a testimoni così come sono, la loro interpretazione sulla scena non ha l'icasticità della testimonianza, ma l'ambivalenza del personaggio. Quelle persone realmente esistenti sulla scena sono semplicemente dei personaggi ai quali bisogna dare uno spessore maggiore di quello che ne deriva dalla loro semplice trasposizione dal mondo reale. Volendo riportare sulla scena le storie raccolte nella maniera più fedele possibile facendosi umile strumento e viatico di quelle donne Tomarelli ne tradisce involontariamente la profonda essenza di donne, che non sono lì sulla scena in carne ed ossa, e che avrebbero bisogno, nel loro essere raccontate ,di un distanziamento drammaturgico per poterne restituire, attraverso una invenzione teatrale, lo spessore e la complessità.
Così raccontate le donne di Tomarelli rischiano di apparire false, ambigue (perchè in esse si sovrappone la verità evocata della persona concreta con quella di chi le interpreta) per cui l'enorme valenza testimoniale che l'autrice ha raccolto in tutto il suo percorso di ricerca finisce per vanificarsi in un cortocircuito drammaturgico che sembra non voler dar loro dignità di personaggio. Non sappiamo chi siano queste donne, che storia abbiano, il motivo per cui siano in carcere, quali relazioni interpersonali l'incarcerazione ha irrimediabilmente interrotto (dimenticando di ricordare come l'elemento più importante per chi sta in carcere non è tanto la mancanza di libertà quanto l'impossibilità di portare avanti relazioni interpersonali, l'esser tagliati fuori). Per cui queste figure di carcerate paiono deboli e poco consistenti.
Non ci fraintenda il lettore lo spettacolo rimane godibile ed efficace nel far ragionare lo spettatore contemporaneo, sempre più distratto e indifferente, su una questione che ci riguarda, in quanto cittadini, tutti in prima persona. E di questo, oltre che della bravura dell'interprete, dobbiamo render merito.
Stelle Danzanti - Storie di Donne dalle carceri
Regia e con : Chiara Tomarelli
Drammaturgia : Chiara Tomarelli in collaborazione con Linda Dalisi
Disegno luci e tecnico: Giuseppe Di Giovanni
Con il sostegno di Compagnia Pianoinbilico e Officine Artistiche 09
Conclude la serata un lavoro molto interessante di Francesca Ballico che, per Teatri di Vita, ha allestito la prima messinscena di Cara Medea, un monologo del pluripremiato drammaturgo contemporaneo Antonio Tarantino, scritto nel 2004.
Del mito di Medea Tarantino compie una trasposizione temporale, Medea è una sopravvissuta al campo di sterminio di Sobibor che racconta il suo viaggio per l’Europa dell’Est fatto di violenze, soprusi e prestazioni orali mentre Giasone è un fallito che millanta a Medea chissà quale ruolo importante mentre è solo un magazziniere presso un silurificio di Pola. Nel monologo Medea ha già ucciso i figli, con un’accetta, quando erano sfollati a Kirovograd, e il mito, già avvenuto e consumato, trova spazio nel mondo moderno dove la guerra si è colorata di nuove inquietanti componenti, dal lager allo stupro etnico.
Partendo dalla sgrammaticatura voluta nel testo di Tarantino Francesca Balico ha sgranato il monologo rendendolo un testo a tratti incomprensibile perchè recitato in altre lingue, polacco, croato, albanese, rumeno e russo, alle quali ha aggiunto il dialetto friulano e l'italiano con un forte accento slavo così espandendo e moltiplicando il monologo.
La Medea di Ballico ha la fisionomia inconfondibile di una prostituta, che cammina di notte in una strada della quale sentiamo il rumore del traffico. Vicino campeggia un telefono (di quelli pubblici a parete, grigi, di una volta) che squilla diverse volte, ma quando Medea risponde si sente il segnale di occupato. E' è lei a telefonare a Giasone, e a parlargli nelle diverse lingue. Un monologo incomprensibile e poi decifrabile con difficoltà variabile (dal dialetto all'italiano dall'accento straniero). Un monologo spezzato perchè cade la linea o perchè è Medea a metter giù la cornetta, o interrotta da un vocio di donne sovrapposto che le restituiscono parte del caos cui ha assistito e vissuto (e che riesce a interrompere con difficoltà).
Per tutto il tempo del monologo, quanto Medea parla al telefono, dà le spalle al pubblico porgendo il viso a favore di una telecamera posta subito sopra il telefono, che rimanda la sua immagine ingrandita su un grande schermo posto di fianco la telefono, che ne coglie parti del volto. La bocca, la fronte, oppure il volto intero, deformati dalla telecamera che, quasi a piombo, offre una prospettiva molto schiacciata. Così lo spettatore ha davanti a sé contemporaneamente due immagini, l'attrice in carne ed ossa, nella sua iconicità di prostituta (il vestito, la borsetta, le movenze), che rimane irraggiungibile al di là del cliché, piccola, fragile, lontana, umana e concreta presenza, della quale lo spettatore si dimentica presto perchè distratto dall'immagine proiettata e ingrandita della telecamera che attrae e concentra la sua attenzione. E' in questa immagine deformata che cogliamo ogni minima variazione fisiognomica di Medea, quando racconta con ostentato cinismo quel che le hanno fatto, quando cerca di distanziarsi dall'orrore con una risata, un racconto intimo dove l'immagine del viso dovrebbe essere altrettanto intima e invece ingigantita viene data in pasto allo spettatore che, passivo osservatore, è testimone di un altro scempio, quello di una intimità violata anche nel momento della rievocazione e della confessione. Uno spettatore la cui passività non può non essere il segno di una colpevole omissione, di schieramento, di presa di posizione, di indifferenza.
Francesca Ballico è incredibile nel restituire il monologo nelle varie lingue in cui lo interpreta, portando lo spettatore a capire quasi quel che dice anche in polacco in rumeno o croato. E nonostante lo scempio e la distruzione cui è passata questa Medea non è meno forte di quella potente e numinosa del mito greco da cui è tratta.
Quaranta minuti atroci e indimenticabili.
Finito lo spettacolo una domanda ci preme alla quale non riusciamo a trovare una risposta. Perché la prostituta? Perché una donna violata, stuprata, manipolata e torturata dal maschio durante la guerra è diventata (o forse è smepre stata) una prostituta? Una prostituta senza clienti nella cui vita il passato fatto di prestazioni sessuali imposte e di omicidi poco concilia con la sua condizione presente. Ci chiediamo se la scelta non sia anche solo inconsciamente l'espressione di un giudizio morale su Medea o sulla donna che Tarantino descrive come la moderna Medea. Se, detto altrimenti, a una straniera giunta in Italia dopo un percorso che l'ha vista girare per tutto l'est europeo quello della prostituzione sia l'unico orizzonte possibile non per motivi sociologici ma per una ineluttabilità estetica. E se è chiara la provocazione che ha portato l'interprete regista a presentare lo spettacolo con alcune parole, di seguito riportate, il loro senso e quel che implicano rendono la domanda che ci è sorta a fine visione ancora più inquietante:
traspare la storia di due eroi di rango più basso, una storia che non ha asilo nel mondo civile, che non sa difendersi, risibile. Seguirò il suo cammino tra i confini, sbriciolando il Polacco, il Friulano, il Croato, l'Albanese, il Rumeno, e il Russo e l'Italiano sgraziato e inopportuno di chi adesso qui, racconta le sue improponibili vicende tra una fellatio e l'altra. Un modo questo, di usare la bocca e farsi capire ovunque. (dal sito teatridivita)
Cara Medea
regia e interpretazione di Francesca Ballico
cura scenica Daniela Cotti e Saverio Peschechera
collaborazioni, traduzioni e voci Ludmila Ryba,
Jola Kowalska Durazzano, Matko Amulic, Adriana Å Najder,
Brunilda Ternova, Valbona Korini, Beatrice Campo,
Vasilica Poamaneagra, Elena Souchilina, Anatoli Zaitsev,
Elena Moskovkina, Nadia Malverti, Sabine Richter,
Project Mondosud, Maurizio Mattarelli e Antonio Dotti
una produzione Teatri di Vita 2010