Dopo Glory Hole presentato nel settembre del 2012 a Short Theater, per singolo spettatoresingola spettatrice, del quale abbiamo già avuto modo di parlare, per Teatri di Vetro VII Giulio Stasi presenta tre nuovi capitoli, in serate differenziate, tratti da Accidentes Gloriosos l'omonimo mediometraggio di Mauro
Andrizzi e Marcus Lindeen, che hanno lavorato sul concetto di incidente visto non solo come elemento negativo ma come serendipico mezzo di cambiamento diventando, nella scrittura di Stasi, altrettante performance.
Dopo Accidente Glorioso 5 – Corazon Nuevo, squisita commistione tra performance e monologo, presentato durante la serata di martedì 23 aprile, è la volta di Accidente Glorioso 6 – Fotografo de Accidentes.
Questo accidente glorioso prende luogo con l'ausilio di un minivan guidato dal regista in persona che trasporta otto tra spettatori e spettatrici, in giro per le vie della Garbatella, nelle immediate vicinanze del teatro Palladium.
Lo stereo suona una canzone natalizia mentre la guida sportiva di Stasi (in veste di personaggio e non di autore egista) fa dribblare il minivan tra le macchine parcheggiate e i bidoni della spazzatura con velocità e fermezza. Dall'alto dell'abitacolo del minivan il pubblico viaggiatore scruta e guarda in ogni direzione senza sapere bene cosa aspettarsi. Un incidente, certo, ma dove? Come ? E soprattutto quanto rappresentato, quanto vero?
Poi ecco che l'incidente avviene.
Il conducente scende, nervoso, si appropria di una parte del veicolo contro cui il minivan si è scontrato, e si riparte sicuri verso un nuovo giro che si conclude in una strada dove il conducente svela la sua vocazione da collezionista, abbandonando il veicolo e i suoi passeggeri concentrandosi nella cura della sua collezione cui può aggiungere un nuovo esemplare.
Intanto nell'abitacolo una voce di donna si sostituisce alla musica e racconta con tono deciso della sua passione per gli incidenti stradali.
Una passione tanto sentita da indurla a scattare fotografie. Ha documentato più di novecento incidenti in quattro anni.
Smetterà quando raggiungerà quota mille. E mentre confessa di rivelare a pochi amici fidati questa sua passione e ci racconta della loro reazione si abbandona al ricordo dell'incidente più grosso che le è capitato di fotografare nel quale erano coinvolte cinque macchine e dei cavalli...
Giulio Stasi riesce a far provare tangibilmente alle fortunate persone che hanno avuto modo di assistere alle sei repliche della performance, un ventaglio di emozioni, dalla paura e dall'ansia per l'incidente e la sua attesa, alla mestizia del dopo quanto il conducente nervoso si dedica alla sua collezione e, mentre siamo testimoni involontari dell'amore del conducente per i suoi cimeli che carezza e fa muovere, un altro amore al contempo tenero e devastante, visto che ognuno rimanda a un incidente, ci viene raccontato da una voce off che si va a innestare su quella che abbiamo vissuto in prima persona, e mentre assistiamo alla morbosità di un collezionista ascoltiamo il racconto di un altro tipo di collezionismo, fotografico.
Grazie alla cura meticolosa in ogni fase di realizzazione, e alla scelta attenta delle attrici con le quali lavora (la voce narrante che sentiamo nell'abitacolo è perfetta e tangibile come fosse presente in carne ed ossa a fare il suo racconto-confessione) Giulio Stasi fa dello spazio emotivo del suo pubblico il vero palco sul quale allestire la sua performance in uno scambio continuo tra poesia dell'incidente e la sua numinosa presenza, tra la soggezione del cruento e la seduzione dell'evento estremo, potente, energico, creativo, rivitalizzante.
Ogni spettatore e ogni spettatrice naviga a vista tra delle coordinate che Stasi allestisce esclusivamente per lui e per lei partendo dall'incidente (vero ma nel quale, naturalmente, non è coinvolto essere umano e dove nessuno si fa male) e approda alla seduzione di un'esperienza dirompente che ha in sé qualcosa di elegiaco.
In una edizione un po' ingessata di Teatri di Vetro Stasi rappresenta, so far, la proposta più aperta, più dirompente, più interessante dell'intera rassegna, sostenuta dall'energia di un lavoro in fieri che si distingue per la pulizia dell'esecuzione e una compiutezza drammaturgica eleganti e sorprendenti.
Accidentes Gloriosos
traduzione, ideazione, regia: Giulio Stasi con: Tiziana Avariata, Elena Cucci, Jun Ichikawa. Francesca Muller, Roberto De Paolis, Tiziano Scrocca, Giulio Stasi supervisione tecnica: Giacomo Marchioni produzione: Rosabella Teatro con il contributo di PF, PP, SR.
Accidentes Gloriosos è finalista e menzione speciale al Premio Tuttoteatro. com alle Arti Sceniche Dante Cappelletti.
La forza del monologo di Alessandra di Lernia sta nella capacità che ha, nel momento stesso in cui mette in scena il vissuto intimo e personale della protagonista - che constata, col tempo, il proprio allontanarsi dalla età giovane, e l'inesorabile inoltrarsi verso una maturità e una (ancora futura ma certa) vecchiaia - di compiere un discorso politico (dove stavolta più che mai la parola significa vita nella città e dunque il relazionarsi con le altre persone) nel quale la solitudine esistenziale cui la protagonista cerca di sottrarsi guardando alla propria vita passata come a qualcosa di concluso e consolatorio, è cifra di una sconfitta politica nella quale tutte e tutti misuriamo la nostra incapacità di lasciare una traccia di cambiamento in un mondo che ci ignora e in un corpo che articola il desiderio, qualunque esso sia, con una fatica sempre maggiore e con sempre più forte dolore, fisico certo, ma anche d'altro tipo.
Emancipato da uno stereotipo di genere che non le è mai servito a niente, simbolizzato dalla schiera di ferri da stiro che contornano lo spazio dove la scena è allestita, il personaggio monologante di Col Tempo descrive con ironia le strategie per non diventare razzista né, col tempo, politicamente moderata, mentre confessa le sue idiosincrasie - odia essere identificata al bar come cliente dai gusti prevedibili e per questo ogni volta consuma qualcosa di diverso con richieste anche contraddittorie - come effetto del tenace tentativo di smarcarsi in una lotta senza quartiere e disperata contro la solitudine che assume un aspetto definitivo quando diventa solitudine non più esistenziale ma concretamente scritta nel corpo.
Splendido, intelligente ed eccessivamente verboso (la misura non sembra caratterizzare i lavori di questa settima edizione di Teatri di Vetro), Col Tempo è uno squisito esempio di contemporaneo teatro di parola.
Col tempo
Testo: Alessandra Di Lernia
regia: Salvo Lombardo
con: Alessandra Di Lernia
ambiente sonoro: Andrea Balsamo
luci e fonica: Valerio Modesti
assistente alla regia: Gloria Anastasi
foto di scena: Simona Caleo
progetto grafico: Marta Renzi
riprese video: Isabella Gaffè, Massimiliano Di Franca, Gianluca Gualtieri
produzione: Clinica Mammut
con il sostegno di: Teatro Furio Camillo | L’Archimandrita, Fonderia delle Arti, Festival dell’Incanto Roddi 2012
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Religions è un primo studio, pletorico, tonitruante, eccessivo, che per raccontare alcune vite vere (tratte da interviste a persone davvero esistite) allestisce una drammaturgia che vede due attrici e due attori muoversi in uno spazio scenico spoglio nel quale il racconto è portato avanti dalle loro performance fisiche tra memorie biografiche dette al microfono e diapositive proiettate (tratte dalle foto private dei quattro interpreti) che illustrano ricordi e racconti.
Due coppie entrambe fratello e sorella, una orfana di entrambi i genitori, che, per questo, ha dovuto rinunciare a degli studi adeguati, l'altra figlia di un imprenditore locale dove le aspirazioni personali sono state sacrificate per contingenze paterne.
Il racconto si dipana tra ricordi d'infanzia, vicissitudini genitoriali e relazioni interpersonali tra i quattro personaggi, un racconto segnato dalla rinuncia e dal sacrificio che seppure vuole essere una denuncia delle contingenze sociali e familiari diventano verghianamente simbolo di una sconfitta di classe inesorabile e priva di pietà più affine ai mezzi e agli strumenti dell'Italia del secondo dopoguerra che quella dell'edonismo anni ottanta (i quattro personaggi dicono di essere tutti nati a cavallo tra la fine degli anni settanta e l'inizio degli ottanta). Il fatalismo con cui le storie biografiche dei quattro personaggi sono raccontate smussa l'incisività della denuncia politica costringendola in una inevitabilità cui non si può che cattolicamente rassegnarsi.
In questo primo studio c'è ancora molto da togliere e correggere, soprattutto il semi-stupro del finale (che si fa involontariamente estetizzante) e la rivestizione, goffa e impacciata, dopo che i quattro personaggi si sono denudati sulla scena. Religions deve ancora trovare la sua vera vocazione se farsi testimone di quattro vite o denuncia di una incapacità d affrancarsi dalla costrizione sociale che per il momento non si capisce se è vista come limite connaturato delle cose o come limite personale delle quattro vite che ci vengono illustrate.
Quel che meraviglia è l'assenza di speranza, la mancanza della necessità di affermare una lotta e una ribellione, anche se destinate a fallire.
La performance funziona e ha tutte le carte per diventare uno spettacolo compiuto ed efficace che questo primo studio sfiora in qualche momento mancando l'intento per il resto del tempo (anche qui il senso della misura e dell'essenzialità può giovare per rendere più immediato un racconto che a tratti indulge troppo nell'autorefenzialità).
Quel che Religions ci propone in scena è molto meno pretenzioso del testo di presentazione. Uno studio al quale manca ancora una visione politica delle vicende raccontate che, senza un'analisi delle sovrastrutture ideologiche, rimane una mera tranche de vie che ha un acritico valore testimoniale e non diventa mai davvero strumento per comprendere il reale.
Comprenderlo per modificarlo perchè che il nostro presente sia irricevibile sembra convinzione comune a molti dei testi presentati al Festival ma oltre a dire che viviamo male pochi dei testi del Festival sembrano capaci di spiegarci il perchè e, tanto meno, sembrano interessati ad abbozzare una proposta di cambiamento foss'anche utopistica.
Religions
i: Gianmarco Busetto
con: Alessia Barbiero, Debora Slanzi, Enrico Tavella, Gianmarco Busetto
luci: Giorgia Cabianca
regia: Gianmarco Busetto/Carola Minincleri
produzione: Farmacia Zoo:È/Lavanderia Nordest
1° Studio