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TEATRI DI VETRO

teatri di vetro serata del 1…

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teatri di vetro serata del 16 maggio Pharmakos movimento II Atto Barbaro
"All’epoca in cui compariva in teatro Edipo (V sec. A.C.) esisteva ancora un rituale antichissimo di indubbia derivazione orientale: Il Pharmakos. Ogni anno la comunità ateniese sceglieva uno dei suoi membri marginali, afflitto da deformazioni fisiche o psichiche, e lo metteva al bando, accompagnandolo in processione alle porte della città affinché con lui venisse espulso l’insieme delle contaminazioni presenti nel gruppo sociale” (J.P. Vernant, L’uomo greco). Il Pharmakos deve attirare su di sé tutta la violenza malefica per trasformarla, con la propria morte, in violenza benefica, pace e fecondità. In greco classico la parola che ne deriva, pharmakon, significa al contempo "male" e "rimedio", "veleno" e "antidoto", in una fase arcaica in cui le cose "sacre" contenevano il puro e l'impuro come varietà del medesimo genere. (dal sito Città di Ebla)
In un ambiente quadrato, un cubo rivestito di pannelli di plastica trasparente, che isolano l'ambiente dal resto della scena, una giovane donna giace su un lettino di ospedale, la padella appesa sotto il ripiano, dei tubi di gomma che pendono dal soffitto le legano polsi, gomiti, vita, cosce e caviglie. La donna chiama la madre mentre in sottofondo si sente l'audio di un programma che parla di bioetica. Una infermiera entra nella stanza. Poi la donna si libera del lettino, libra nell'aria usando i tubi di gomma sui quali fa leva cambiando posizione, facendo forza sui legacci dei polsi, ora del bacino, ora arrampicandosi a forza di braccia. Poi una forbice cala dall'alto e la donna recide i tubi, uno dopo l'altro. Dai tubi fuoriesce del liquido che la bagna compitamente. La donna, che indossa uno slip color carne e una fascia che le comprime i seni, così bagnata, attraverso la plastica che la separa dalla platea, sembra nuda. La donna inizia a ipotizzare diverse storie ("facciamo che..."), indossa un vestito bianco, interagisce con un pannello di metallo riflettente, usandolo per rimandare la luce che piove dal soffitto in platea. Poi inizia a percuotersi l'inguine, si insanguina, incespica sul lettino, cade a terra. Seduta di spalle uccide qualcosa. Ne mostra i resti (una colomba?), li schiaccia, dà loro fuoco con una sorta di fiamma ossidrica in un rito sempre più angosciante. Alla fine la ritroviamo nella stessa posa con cui l'avevamo trovata entrando in sala, sul lettino. L'infermiera accende la radio, entra con una mascherina nella stanza e si mette a ripulire. Questo, riassunto al massimo, il rito mostrato in questo splendido Pharmakos II secondo di una suite di 5 movimenti diversi nel quale si incrociano esperienze performative e racconti mitici di diversa provenienza. Sacrificio, creazione, nascita, sangue, delirio, morte, il corpo della giovane Valentina Bravetti diventa un crocevia di suggestioni e percorsi tra corpo sacrificale e corpo medico. Un percorso di ricerca che sa dosare bene performance. allestimento e drammaturgia forse troppo sbilanciata nella parte a terra e parca delle circonvoluzioni in aria, appesa ai tubi di gomma che, per chi scrive, costituiscono la parte visivamente più suggestiva di una messa in scena che colpisce e tiene col fiato sospeso senza annoiare mai ma angosciando tanto. Una messa in scena completa perfetta che avviene completamente dentro uno spazio delimitato e inesorabilmente isolato dalla platea (anche gli applausi vengono presi all'interno della struttura scenica). Un allestimento che, una volta visto, è impossibile dimenticare e che lasciano ocn la curiosità e il desiderio di assistere agli altri quattro movimenti. Cabaret Godot Nel cortile di uno dei lotti del quartiere Garbatela di Roma, un palco improvvisato, una scena costituita da una vecchia poltrona di cuoio e una parete di quinta con un frigorifero davanti, una voliera per uccelli, dentro la quale prende posto un musicista (la tastiera di sbieco, una tromba nella parte alta della voliera). Un giovane ragazzo barbuto entra sul palco improvvisato ...per uscirvi subito dopo. L'entrata si ripete varie volte. L'emozione non riesce a farlo parlare. L'emozione gioca lo stesso scherzo al suo partner di scena ma basta un suggerimento del primo al secondo ("signore e signori questa sera...) perché la parola si faccia strada tra i due che, di rimbalzo, iniziano un funambolico gioco di rimando, di rimpiatto, sui suoni e sui significati delle parole. Cabaret Godot ha un riferimento beckettiano che costituisce un sostrato culturale sul quale si stagliano le personalità artistiche del duo che non hanno bisogno di padrini o di riferimenti per emergere in tutta la loro statura artistica. I due performer sono il cantautore pluripremiato Ettore Giuradei (sue sono le canzoni, cantate dentro al frigo, dello spettacolo, la splendida Prendimi in un mazzo di fiorellini, tratto dal suo secondo album, il cui ritornello recita: arrampicarmi su una pianta, gialla e stanca, che mi guarda il pancino) e l'attore Michele Beltrami che alterna la sua ricerc ateatrale con la direzione di laboratori creativi per i bambini. Dalla passione per la scomposizione della parola e della ricerca di un significato ad ogni costo al non-sense che nasce da un candido stupore e dall’inadeguatezza di chi non sa spiegarsi quel che succede Cabaret Godot costituisce un percorso di ricerca teatrale basato sullo studio della parola come testo e come gioco approntando una forma di comunicazione che coinvolge lo spettatore in un gioco teatrale di “comprensione improvvisa”. Ne nasce un cabaret molto preciso, intelligente, colto quasi, senza darlo a vedere. Beltrami e Giuradei allestiscono uno spettacolo-divertissement nel quale indagano sugli usi della parola, da Rodari a Mario Lodi, nella quale l'acrostico (dove FIORE sigifica Forse in ogni rapporto esistono false ipocrisie o reali emozioni) diviene una forma di scomposizione e ricerca di singnificati altri in una in un approccio laico alle parole, dunque al pensiero e quindi alla vita, toccando sempre una aspetto dell'uomo e del suo comportamento, la sua solitudine, la sua difficoltà a resistere in un mondo dove ci si rassegna subito a un vivere conformista. I due attori, che portano lo spettacolo in giro per l'Italia già da un paio di anni, sanno resistere anche al pubblico occasionale, distratto e pieno di bambini vocianti e che non stanno mai fermi, con una disinvoltura e una capacità di adattamento straordinarie tanto che anche il continuo andirivieni dei piccoli in prima fila o le urla strazianti di un bambino che piange in uno dei palazzi del lotto, entrano a far parte dello spettacolo. Cabaret Godot è una felice dimostrazione di quella cultura italiana intelligente, semplice ma non per questo meno profonda, che costituisce un'iniezione di ottimismo, una dose di ossigeno per il cervello, in un periodo sempre più asfittico e oscuro. Assistere a Cabaret Godot vuol dire farsi del bene. Interno Abbado Terzo e conclusivo spettacolo della serata, presentato dalla compagnia Itermini, Interno Abbado si rifà sia alla casa della famiglia Abbado (alcuni ammennicoli della quale sono disseminati sul pavimento nel palcoscenico vuoto) sia all'interno della psiche di Carlo Abbado, diventato sua moglie Rosa, della quale ha preso il posto dopo averla eliminata. Una telefonata della polizia che risponde alla denuncia della scomparsa di Carlo fatta da Rosa dà il via, durante il monologo parossistico, alla scoperta di Rosa di essere in realtà Carlo che ha preso il posto di sua moglie. Un gioco di specchi espresso in un continuo delirio verbale sostenuto con straordinaria bravura da Giandomenico Capaiuolo che, da solo sul palco, sostenuto da timidi, e francamente esornativi, interventi musicali di Lucas Waldem Zanforlini, dà voce e corpo a un personaggio ispirato al Norman Bates di Hitchock. Un percorso ossessivo che Capaiuolo costruisce con l'ausilio di Andrea Barraco, che firma con lui il testo, e da solo la regia. Lo spettacolo, vincitore M'Arte Live per la sezione teatro, si impone più per l'alta performance del suo interprete che per la novità del testo. La storia e le motivazioni di Carlo e Rosa sono infatti quelle classiche della coppia eterodiretta dai ruoli sessuati ben determinati (lei che cucina lui che subisce le sue scelte culinarie, il suo apparire donna sciatta e casalinga, il suo odore di cucina) senza mai entrare in profondità con le realtà descritte, impiegandole per il loro coté grottesco piuttosto che per quello tragico cui, pure, il testo fa allusione senza sviscerare nel delirio dell'uomo fattosi donna le contraddizioni di una società sessista ancora ferma agli anni 50 come quella italiana. Ma forse chiediamo troppo a un monologo che ha il grande pregio di sviluppare l'idea di un personaggio doppio in maniera precisa e riuscita. Tre spettacolo molto di versi che esprimono tutti lo stato di salute confortante della creatività italiana, nonostante un panorama politico e culturale non certo edificante. Teatri di vetro 3 dimostra di saper inserire la sua proposta culturale nel territorio muovendosi tra spettacoli sul palco (al prezzo politico di 5 euro a serata) e quelli nei vari lotti del quartiere Garbatela (a ingresso gratuito) ottenendo senza sforzi l'attenzione e la partecipazione del pubblico che presenzia numeroso un evento che tasta il polso alla parte creativa del Paese. Città di Ebla (Forlì) PHARMAKOS movimento II - Atto barbaro Con Valentina Bravetti e la partecipazione di Elisa Gandini Parole Elisa Gandini Corpo del suono Elicheinfunzione Traiettorie Valentina Bravetti Direzione tecnica Luca Giovagnoli ideazione, luci e regia Claudio Angelini produzione Città di Ebla, Comune di Folrì, teatro Diego Fabbri Beltrami/Giuradei (Brescia) CABARET GODOT Di e con Ettore Giuradei e Michele Beltrami Al pianoforte Marco Giuradei Itermini (Roma) INTERNO ABBADO Di A. Baracco e G. Cupaiuolo Con Giandomenico Cupaiuolo Regia Andrea Baracco Musiche dal vivo Lucas Waldem Zanforlini Disegno Luci Camilla Piccioni Roma, teatro Palladium 16 maggio 2009
teatri di vetro Serata di domenica 17 maggio 2009 Corpo a Corpo Mentre gli spettatori prendono posto in sala, sul palco il musicista Marco Giannoni sistema alcuni sensori collegati al pc sul corpo di una danzatrice, a seno nudo, mentre tre figure, due danzatrici e un danzatore, attendono, in posa, in fondo alla scena. Luce diffusa, un telo bianco retroilluminato che copre tutta la parete di fondo e poche altre luci che individuano alcune aree chiare in una luminosità crepuscolare costituiscono la scena. Il musicista inizia a ottenere suoni dal corpo della danzatrice, trattato come un qualsiasi strumento musicale, suoni tecnologicamente processati che diventano materiale compositivo, sfruttando le sonorità del corpo stesso come il battito del cuore ma anche la capacità del corpo umano di trasmettere vibrazioni sonore, ed emettere suoni se opportunamente percosso e stimolato. Una composizione musicale dal vivo ma non estemporanea alla quale fa da contraltare la composizione coreografica delle due danzatrici e del danzatore, i quali, influenzati dalla musica si lasciano pervadere dalle sue vibrazioni traducendone la tessitura armonica in movimenti del loro corpo subito tradotti in posture coreografate che diventano via via più complesse e libere. I tre corpi procedono ora all'unisono ora in una ricerca individuale di soluzioni coreografiche all'interazione con la musica. Lo spettatore è lasciato libero di osservare la progressione coreutica oppure l'azione del musicista (chino sulla donna come un violista sul suo strumento o come un vampiro sulla sua preda). C'è qualcosa di osceno in questo corpo bello e desiderabile ignorato come tale e toccato come mero strumento musicale. All'inizio la connessione donna suonata/danzatori è pervasa da un certo disagio, un impaccio, voluto, a testimoniare l'autenticità di un incontro tra composizione musicale e composizione coreutica, che si scioglie man mano in un passo a due tra macchina musicale e corpo di ballo. Poi ben presto il musicista libera la donna-strumento e la musica non è più prodotta dal vivo ma riprodotta. La ballerina-strumento raggiunge i compagni di danza il palco viene illuminato pienamente e continua lo sviluppo coreografico di una ricerca libera e scevra da consuetudini: le danzatrici trovano soluzioni individuali non cercando, come nella prima parte, l'unisono, anzi sviluppando in diverse direzioni le stesse intuizioni iniziali. Sono corpi femminili forti, plastici, che sostengono l'intera coreografia lasciando l'unico danzatore, giovanissimo, vestito con dei pantaloni immacolati che ne legano in parte i movimenti, da parte, in disparte. Ora imbastisce una danza simmetrica con una delle tre danzatrici, mai identica ma sempre diversamente sviluppata, a seconda del corpo diversamente sessuato, ora attende come a inizio spettacolo, ora si cerca, poggiato su una parete, coprendosi con la mano un occhio. E' incredibile come la sua bellezza virile venga regalata all'occhio dello spettatore. Una attesa, una dolcezza, una calma alle quali il danzatore non resiste ma si lascia sensualmente andare fino all'incontro scontro con alcune delle danzatrici. Una partitura coreografica dinamica sempre in cambiamento nella quale il centro di equilibrio è in continuo spossamento, ora su un movimento, ora su un corpo, ora su una tradizione rovesciata (le danzatrici portate da altre danzatrici e non dal danzatore). La coreografia sorprende per il profluvio di spunti, idee e intuizioni coreografiche ognuna delle quali, da sole, avrebbero potuto costituire una coreografia a sé. Si donano invece in una coreografia unica, legata da uno viluppo senza soluzione di continuità, con un grandioso impiego delle luci (di Umberto Fiore) consumando il corpo delle danzatrici fino al parossismo mentre il corpo angelicato del danzatore non viene mai davvero stancato. E allo spettatore intrigato da un allestimento che gli chiede sempre di scegliere cosa privilegiare, quale movimento coreografico, quale danzatrice seguire, in uno scambio mai ripetitivo e sempre nuovo. Loredana Parrella è in stato di grazia creativo e proprio mentre si regala senza remore sa controllare la sua coreografia con una intelligente misura che non impedisce gli eccessi ma li sa contenere con eleganza. Il pubblico applaude entusiasta facendo uscire le danzatrici e il danzatore più e più volte. Cie Twain continua a stupire per la precisa e unica fisionomia che la distingue nel mondo della danza contemporanea con una firma personale, inconfondibile e splendida. MKBèT Giovanni Magnarelli ha presentato, al suo primo debutto, lo spettacolo MKBèT rilettura per una sola voce recitante della tragedia shakespeariana. Da solo, indossando solo un paio di slip e due stivali di gomma, con l'ausilio di rari oggetti di scena (una maschera napoletana, un cappello, un fantoccio raffigurante un neonato, due tessuti che fungono ora da mantello ora da vestito di Lady Macbeth) Magnarelli dà una lettura informale ma precisa, disinvolta ma proprio per questo drammatica del racconto shakespeariano con l'ausilio dell'opera omonima di Verdi le cui arie fungono da tappeto sonoro, a tratti monotono e insistente, quando ripetuto a loop, per cellule musicali ripetute, proprio come alcune frasi della tragedia riprese e ripetute dall'attore dubbioso di una intonazione, di una giusta restituzione drammaturgica. Ne deriva una lettura laica, non dogmatica che avvicina invece di allontanare anche un pubblico di profani come quello che popola il lotto 16 (un aggregato di case popolari del quartiere storico di Garbatella a Roma) costituito per metà dagli spettatori della rassegna e per l'altra dagli inquilini del lotto che guardano osservano e capiscono. L'ambientazione da teatro da strada (con due microfoni omnidirezionali a captare la voce dell'attore) conferisce alla tragedia una sottile ironia di fondo che non è mai irrisione ma leggerezza drammaturgica, la mancata pretesa di prendere quel che si recita maledettamente sul serio (come criticava a suo tempo Carmelo Bene l'attorume nerovestito a proposito di Amleto), senza per questo ignorare la serietà del mestiere dell'attore. Un'operazione del genere funziona solamente se l'attore ha le forze per sostenerne il discorso e Magnarelli è maledettamente bravo a restituire il dramma di Macbeth impiegandolo al contempo come il viatico per illustrare la condizione di un povero attore che si pavoneggia e si agita per la sua ora sula scena e dal quale poi non si ode più nulla fino al sipario come recitano le note di regia. Uno dei più autentici Macbeth portati di recente in scena. Le muse orfane Presentato sotto forma di studio (uno spazio vuoto, col suolo ausilio di due sedie) contando solo sulla verve recitativa dei suoi quattro interpreti (impeccabili) quello che lascia indifferenti è proprio la scelta del testo di una autore del Quebec (Michel Marc Bouchard) che imbastisce un altro polittico familiare tra lesbiche, figlie ritardate e madri onnipresenti. I soliti corrivi luoghi comuni sulla famiglia borghese in una letteratura teatrale che ormai non sa più dare o dire alcunché di nuovo e che finisce per succhiare energia al teatro che pure con tanto amore e professionalità si ostina a metterla in scena. Messa in scena precisa, recitazione adeguata ma il testo sa di già visto e mentre banalmente annoia conferma pericolosamente nello spettatore i più triti luoghi comuni su ruoli sessuati dell'uomo e della donna. Ma esiste anche questo teatro ed è giusto portarlo in scena anche solo a testimoniarne la sempre meno urgente necessità. Cie Twain (Ladispoli – RM) CORPO A CORPO Coreografia/ Regia di Loredana Parrella Musiche originali Marco Giannoni Allestimento tecnico/ Disegno luci Umberto Fiore Costumi Loredana Parrella Performance/ Installazione musicale dal vivo Marco Giannoni Interpreti Vittoria Maniglio, Anna Basti, Enza Carrozzino, Yoris Petrillo Coproduzione OFFicINa di triangolo scaleno teatro Debutto a TDV3 in forma di studio Giovanni Magnarelli /Teatro inForme (Roma) MKBèT Di e con Giovanni Magnarelli Reggimento Carri/Roberto Corradino (Bari) LE MUSE ORFANE di Michel Marc Bouchard Con Beatrice Ciampaglia, Roberto Corradino, Tatiana Lepore, Simona Senzacqua Allestimento Roberto Vorradino /reggimento carri Coproduzione Festival Castel dei Mondi 2009 Coproduzione OFFicINa di triangolo scaleno teatro. Debutto a TDV3 in forma di studio.
Roma, Teatro Palladium, 17 maggio 2009
Visto il
al Palladium di Roma (RM)