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TEATRI DI VETRO

Teatri di Vetro. Un festival in continua crescita

Teatri di Vetro. Un festival in continua crescita

Ha aperto la quarta edizione di Teatri di vetro un festival intelligente che seleziona per il pubblico romano le realtà più importanti del teatro di sperimentazione italiano, spaziando da quello di parola alla danza, impiegando non solo il canonico teatro (la sala)  come luogo di performance ma anche le meno consuete, ma lo stesso praticate dalle varie compagnie e gruppi di ricerca ospiti, piazze urbane e altri luoghi cittadini come i cortili dei lotti di Garbatella, quartiere romano in cui ha luogo il festival. Caratterizzato da un biglietto simbolico (5 euro il prezzo intero per singolo spettacolo, 20 euro l'abbonamento a TUTTI gli spettacoli in teatro) e dall'ingresso libero per tutti gli spettacoli all'aperto Teatri di vetro ha l'intelligenza di promuove il teatro non solo con la facilitazione del prezzo del biglietto per gli spettacoli sul palco, ma anche quella di di portare il teatro tra la gente che normalmente crede di non essere all'altezza di una forma d'arte considerata chissà perchè per una élite. Gli spettacoli presentati nei lotti, oltre a intercettare un pubblico di curiosi, coinvolgono infatti anche gli abitanti del quartiere, dei lotti, che assistono curiosi, attenti, sorpresi di apprezzare quel che vedono, scoprendo che il teatro è alla portata intellettuale di tutti, anche loro, (mentre per i vari performer quel pubblico costituisce una verifica ben maggiore di quella degli spettatori a volte paludati dei festival...). Insomma una manifestazione che dimostra come il teatro sia vivo e vegeto, amato e seguito dal pubblico di ogni sorta ed estrazione sociale (e anagrafica, commuove vedere tra il pubblico signore sopra la settantina e giovanissimi liceali...) e come le sorti dell'italica cultura oggi interessi solo ed esclusivamente agli enti locali mentre il Governo tace e taglia il Fus... Teatri di vetro è organizzato da Triangolo scaleno teatro che, oltre a  occuparsi di produzioni proprie, organizza il festival grazie al sostegno della Provincia di Roma e della Fondazione Romaeuropa, in sinergia con il progetto OFFicINa 1011, sostenuto dalla Regione Lazio, nell'ambito del quale Triangolo Scaleno ha vinto il bando officine culturali per il 2010-2011, progetto con il quale il festival produce i lavori di Sineglossa, città di Ebla e GMBM dei quali avremo modo di parlare nei prossimi giorni.
Teatri di vetro collabora anche con altri operatori tetarali quali ZTL_pro, Festival Quartieri dell'Arte, con la rete Europe&Cies, con Ipercorpo e con Palmetta, rendendo il festival anche un momento di scambio tra operatori culturali. Insomma un bel progetto, riuscito, in ottima salute, solido e attesissimo appuntamento annuale sulla scena romana.

 

PIRMA GIORNATA 14 MAGGIO 2010

Nonostante la pioggia abbia scombussolato il programma originale rendendo inagibili gli spazi all'aperto, lo staff organizzativo del festival  è riuscito a far assistere quasi tutti gli spettacoli/istallazioni in programma (con l'unica eccezione di Traccia 03 di Caterina Moroni) seguiti dal pubblico numeroso accorso con attenzione nonostante la pioggia copiosa.

Unico spettacolo a non essere stato disturbato dalla pioggia, ospitato sul palco del Palladium, Motel (faccende personali) del Gruppo Nanou di Ravenna,  è una trilogia suddivisa in stanze, la prima già presentata a Vertigini  (il festival di teatro dell'auditorium di Roma) e la seconda alla rassegna ZTL_pro (che l'ha anche co-prodotta), ospitata nello stesso teatro Palladium. La prima stanza, Il salotto della signora all’ora del te senza la signora ha debuttato l'8 dicembre del 2008 al teatro comunale di Ferrara, la seconda, senza titolo, ha debuttato al festival Fabbrica di Firenze lo scorso 8 maggio c.a.

Motel propone una ricerca visiva nella quale gli attori si muovono sul palco in una maniera inusuale approfittando delle scansioni buio/luce per cambiare posizione sulla scena (due sedie e un tavolo bella prima stanza, una poltrona e un divano nella seconda) comparendo e scomparendo dalla scena come se venissero da essa inghiottiti o da essa emergessero (l'uomo entra sotto il tavolo e ne esce la donna...). In un'atmosfera in bilico tra il ricordo, l'istantanea fotografica, il frammento di tempo, un altrove erompe con tutta l'icasticità di una presenza fantasmatica. Bravissimi gli attori a muoversi in maniera atletico-performativa sulla scena, manipolando oggetti, e arredi, mentre alcuni indizi/dettagli alludono a omicidi, violenze, ire (soprattutto nella stanza seconda) e le luci immergono la scena nel buio, o in un'atmosfera crepuscolare, mentre le musiche,  o, meglio, i rumori, rimandano a radiogiornali dei quali non si distinguono le parole,  ribadiscono i gesti d'efferata violenza con un rumoroso e disturbante loop sonoro martellante e metallico, riproducono rumori di stoviglie,  mentre la posa degli attori si fa ora plastica, ora evocativa, ora in fervente movimento mentre un solerte facchino (nella stanza seconda)  elimina gli indizi, rimette la scena a posto, fa tornare la stanza nella normalità dell'inizio.

Una ricerca interessante ma un poco algida, criptica, ostica e, ci duole dirlo,  intellettualistica, forse eccessiva anche nella durata (mezzora per ogni stanza) dove la ripetizione, piuttosto che costituirsi come cifra stilistica, va a detrimento dell'impatto emotivo dell'allestimento, allontanando lo spettatore invece di invogliarlo a entrare nella messa in scena. Questo nonostante la prima stanza sia introdotta da un uomo con la tuba in testa che svolge un rullo di carta bianca sul quale sono scritte alcune frasi rivolte allo spettatore  (tutto questo è stato preparato per te, ricordati di me). Capiamo l'intento dell'allestimento di rendere lo spettatore un voyeur cui è dato di guardare alcune faccende personali che non può (o non deve) decifrare completamente, ma l'effetto straniante finisce per intimidire lo spettatore  che alla fine rinuncia di capire e assiste passivamente allo spettacolo. Almeno, questo è l'effetto che ha sortito su chi scrive.


Nonostante la pioggia imperversante Daniele Spanò ha incantato gli spettatori col suo Forgetful 0.2 un'istallazione video proiettata sul palazzo di fronte la piazza del teatro Palladium. Alcuni schemi geometrici videoproiettati si inseriscono perfettamente allineati al profilo architettonico delle finestre del palazzo,   delimitando nuove immaginarie finestre, dalle quali si affacciano uomini e donne. Le finestre sono ora chiuse ora aperte, ora presentano dei drappi svolazzanti. Le persone vi sporgono, sono appoggiate sui fregi, oppure vengono verso lo spettatore camminando su una sorta di assi che fuoriescono dalle pareti.
Il tutto in 2d ma con un gioco così ricercato di prospettiva da materializzare persone finestre e assi come fossero vive e solide. Lo studio preliminare della facciata su cui verrà proiettata la video-istallazione che permette la perfetta collimazione tra geometrie architettoniche esistenti e quella creata dal Spanò sono indispensabili per la riuscita visiva dell'istallazione. Il risultato è una operazione ludica, gioiosa, che riscrive lo spazio urbano coniugandolo con quello intimo delle emozioni umane, secondo linee, direttrici colorate, e personaggi che si muovono sulle pareti. Una ricerca interessantissima prodotta nell'ambito di Romaeuropa Web Factory rivolta agli sperimentatori della videoarte.

Love Car di Macellerie Pasolini.
Dentro una automobile multipla, coperta da un telo di plastica opaca, sollevato da due officiatori, con tanto di grembiuli leggermente sporchi di sangue, un uomo e una donna di mezza età, lei bella e serafica, il cui sovrappeso ne fa una donna bella e felice, lui coi capelli grigi e un'aria forse triste, recitano dentro l'abitacolo (illuminato in modo che lo spettatore da fuori possa vedere bene quel che succede. L'uomo finge di guidare, poi sembra arrestare la macchina. La coppia è allegra, sbarazzina. Ridono, a crepapelle, le loro risate fanno vibrare la macchina. Lui dal troppo ridere cerca aria, sporge dal finestrino, lei lo abbraccia da dietro, gli pettina i capelli. Intanto una complessa partitura sonoro-musicale alterna brani della lettera di Piergiorgio Welby al Presidente della Repubblica, detta da voce metallica e artificiale, come quelle digitalizzate dei primi computer che si chiede Che cosa c’è di naturale in un corpo tenuto biologicamente in funzione con l’ausilio di respiratori artificiali, alimentazione artificiale, idratazione artificiale, svuotamento intestinale artificiale, morte-artificialmente-rimandata?, a brani musicali che spaziano fra tutti i generi e autori, da Beethoven alla musica elettronica, alternati ancora dai dialoghi di alcuni film, da che cosa sono le nuvole? di Pier Paolo Pasolini a un film con Mastroianni, che parlano della bellezza della vita, e della morte come sollievo per una vita non più vivibile. L'uomo e la donna intanto sono allegri, brindano, si baciano, fanno l'amore e  la macchina si muove non più per i sussulti delle risa. Poi lui sembra assopirsi,  lei sembra colta da tristezza. Sta per lasciare l'abitacolo, ma lui la convince a rimanervi.Lui piange, singhiozza, si dispera e lei con lui. La macchina si muove ancor per altri sussulti. Poi di nuovo lei lo abbraccia, lo pettina, è sopra di lui, ma quando torna a sedere sul suo sedile si pulisce le mani con un asciugamano bianco che si sporca di sangue mentre lui giace esanime al posto di guida. Gli officiatori stendono pietosamente  il telo di plastica di prima.

Un'istallazione perfetta, precisa, commovente e gioiosa il cui senso emerge senza alcun bisogno di spiegazioni almeno per chi vi ha assistito. per chi legge adesso queste righe basterà il breve programma di sala: Love Car declina il viaggio di un'intera esistenza nell'attimo che precede il suo trapasso (...) portando in primo piano il problema etico e politico dell'eutanasia.

Questo è il teatro che più ci piace, ci entusiasmai e ci convince, quello che sa coniugare all'arte della performance semplice ma complessa, dove visivo e sonoro procedono in sinergia ma ognuno per proprio conto a creare la performance, con una tematica sociale, politica, con una argomento che tocca, o dovrebbe toccare, la comunità, il pubblico, la cittadinanza, il Paese. Macellerie Pasolini lo sanno fare da veri Maestri e a loro va tutto il nostro plauso e, cosa più importante va anche il plauso del pubblico, che ha applaudito commosso ed entusiasta. Istituite a Roma nel 2009, Macellerie Pasolini creano, producono e sostengono opere interdisciplinari. Un gruppo da seguire con attenzione.


Infine, scacciati dal lotto 15 dove avrebbero dovuto esibirsi e costretti nel foyer del teatro Palladium, Anna Basti e Yoris Petrillo si sono cimentati con la coreografia Féroce Présence di Loredana Parella per Cie Twain la compagnia che Parrella ha messo su nel 2006 assieme al designer belga Roel Van Breckelaer.

La coreografia parte dalla ricerca sulla rappresentazione del dolore che non viene illustrato come un sintomo esteriore ma innervato in una pulsione dinamica che parte dall'interno del corpo per emergere con una dirompenza incontenibile necessaria e inarrestabile. La coreografia cerca nel corpo dei danzatori un'energia analoga a quella del dolore, della sofferenza, caricando i muscoli di una tensione accumulata che emerge all'improvviso travolgendo il corpo del danzatore (della danzatrice) proprio come il dolore di cui si cerca l'evocazione.
Mentre il danzatore giace inerme a terra la danzatrice si risveglia emanando coi suoi muscoli in tensione quell'onda di energia nervosa che lo attraversa proprio come il dolore, e per abituare il suo corpo a quel ritmo, a quella spinta usa il respiro (anche in funzione sonora) e si percuote il petto con un gesto secco, flagrante, rumoroso. Un modo di essere nervoso nel senso letterale di fasci di nervi tesi, che contagia anche il danzatore esanime, coinvolgendolo prima nello stesso risveglio al dolore ma poi interagendo con la sua persona in un riconoscimento alla vita che si fa subito drammaturgia. Un riconoscimento e uno scambio dei corpi che si fa quasi seduzione, corteggiamento coreutici e che si basa su una capacità atletica dei due interpreti non indifferente. Notevoli alcune prese del giovane danzatore che accoglie sugli avambracci tesi la danzatrice che gli sale in braccio da terra praticamente da sola, per poi roteare su se stessa mentre lui la sostiene.
Un risveglio e un incontro tra corpi che termina con l'affermazione dell'esserci, di esistere, anche in uno stato di dolore, cercando di far emergere l'inespresso che ogni dolore porta con sé.
Un lavoro elegante, una coreografia di altissima intensità emotiva e fisica per i due interpreti (che impiegano qualche minuto per uscire dall'intensità che la coreografia ha fatto loro raggiungere) e per il pubblico che rimane incantato nonostante la coreografia avvenga in uno spazio non preparato e senza alcun disegno luci, mentre la musica di Bach sostiene a tratti la performance dei due danzatori.

Anna Basti impressiona per la sua duttilità di danzatrice capace di rispondere agli alti standard che le coreografie di Parrella sempre richiedono. Yoris Petrillo si dimostra un giovane ballerino molto dotato, sia sul piano tecnico che su quello interpretativo. Insieme formano un duo eccezionale che ha dato vita a una versione inedita della coreografia, pensata in origine per Anna Basti ed Enza Carrozzino, (formazione con la quale ha debuttato il 18 ottobre del 2008) e priva della proiezione video che nella scheda tecnica della coreografia è presentata come "facoltativa".
Loredana Parrela, di cui abbiamo già avuto modo di parlare più volte in passato, continua a sorprendere con una ricerca coreografica che propone sempre nuovi spunti, nuove riflessioni, sull'essere nel mondo, mediati e detti attraverso la danza, senza mia ripetersi, sempre alla ricerca di nuove forme con cui declinare l'arte della danza.

 

 

Cie Twain
FÉROCE PRÉSENCE
Coreografia e drammaturgia: Loredana Parrella
Interpreti: Anna Basti, Enza Carrozzino - Produzione Ac


Forgetful 0.2
Istallazione video: Daniele Spanò
Sound design e soundtrack: Davide Severi

LOVE CAR
Macellai: Cristina Matta, Romano Treré, Ennio Ruffolo, Fabio Fiandrini, Sara Garagnani, Maria Donnoli, Leonardo Principe

Motel

di: Marco Valerio Amico, Rhuena Bracci
con: Marco Valerio Amico, Rhuena Bracci, Alessandro Cafiso
suono: Roberto Rettura
light design: Fabio Sajiz
scene: Antonio Rinaldi

 

SECONDA GIORNATA 15 MAGGIO 2010

 

Attanagliata dalla pioggia anche la seconda giornata del festival ha visto quasi tutti gli eventi previsti rifugiarsi nel teatro e nel suo foyer (tranne Corde e lamiere che, previsto al lotto 15 è stato spostato  al sovrappasso Atac che non abbiamo avuto modo di vedere e del quale, dunque, non parleremo).

Primo spettacolo sul palco Tratte di Gaspare Balsamo, che presenta sulla scena due musicisti e due cantastorie che, giocando sul dialetto siculo, sulla lingua inglese e su quella francese propongono al pubblico un racconto sugli harraga dei mari e dei deserti.
harraga è un termine algerino che significa migrante, un tema forte del nostro presente dunque, tra migranti costretti alla clandestinità, sfruttamento di chi li trasposta su barche fatiscenti e la xenofobia più o meno strisciante di tanti italiani e di sezioni sempre più ampie della compagine governativa e parlamentare.
Balsamo sceglie la via musicale, costruendo lo spettacolo sulla sonorità, non solo degli strumenti adoperati, il Kora (suonato da Silvia Baloussi) un'arpa-liuto diffusa in buona parte dell'Africa Occidentale, e l'oud, un liuto a manico corto, diffuso nel mondo arabo-islamico, suonato, assieme alla chitarra, da Carmelo Cacciola ma gioca molta sulla sonorità delle varie lingue impiegate nel racconto degli harraga: L'inglese di Silvia Balossi il Wolof senegalese di Mayambe Diop e il farncese, lingua coloniale con la quale interagisce con Silvia, mentre Gaspare Balsamo in un dialetto siculo dapprima stretto poi via via più italianizzato, comincia il racconto circolare  e semiripetitivo di come gli Harraga dall'Africa giungono in Sicilia. ne emerge il racconto di un uomo che vive in una città dell’Africa sub-sahariana e nato schiavo come suo padre e suo nonno prima di lui,  ha sempre lavorato fin da bambino lavorato alle dipendenze di un padrone tra miseria, malnutrizione, violenza e religione. Finché non decide di fuggire diventando un nomade ex-schiavo spostandosi tra terre due e coste del suo paese proprio come suoi antenati. Ma solo come harraga riuscirò a ritrovare quella libertà che nel suo paese non gli viene mai riconosciuta. perchè per bruciare le frontiere bisogna diventare harraga (la cui radice semantica significa proprio (bruciare)
Tratte è uno spettacolo ostico se non si è votati al plurilinguismo, di difficile comprensione anche per chi un po' di inglese e di francese (o di dialetti italiani) ne mastica, perchè impiega le varie lingue di cui è composto più dal versante musicale che da quello dei contenuti trasmessi. Si fatica a seguire quel che viene detto, anche perchè il testo è detto sulle musiche, e non si distingue bene, tanto che il suo autore e interprete ha pensato di distribuire al pubblico un foglio con alcune parti del testo raccontato.
Questa scelta estetizzante, mentre affascina il pubblico in sala, non si sottrae al rischio di presentare musiche e racconti dal versante esotico, coinvolgendo il pubblico di occidentali cui si rivolge nel loro tratto squisitamente etnocentrico, che guarda a questi suoni, a questi racconti di the e di deserti, dal lato pittoresco e  turistico e non da quello invece politico, storico, sociale, duro e sofferto degli sfruttati africani per mano dell'uomo bianco come pure, il testo, racconta (ma lo si capisce solo seguendone gli estratti distribuiti in fotocopia). Ora il racconto di questo migrante, mitico e universale, fa della migrazione un elemento positivo e di liberazione per chi la compie ignorando le cause concrete di violenza e di disperazione che portano all'abbandono della madre patria, le cui ragioni politiche ed economiche vendono responsabili sempre gli interessi del mondo occidentale che qui invece viene visto come elemento di salvezza liberatoria mistificando la Storia. Un racconto mitico come minimo naif che finisce per ridurre tutto alla gioia delle musiche, all'allegria con cui i protagonisti salgono sul palco, alla musicalità dirompente e festaiola con cui vengono raccontati fatti di sftuttamento e di migrazione che non contribuiscono certo alla presa di coscienza dell'uomo occidentale così come pretende il suo autore nelle note di regia.
Il pubblico dopo un'ora di estasi musicale si sente anzi rinfrancato e come restituito a una verginità antirazzista senza rendersi conto che nell'approccio che ha a quelle musiche così carine ma certo non percepite con la stessa complessità di Beethoven, continua a comportarsi come il più becero colonialista.
Questo è  il difetto maggiore di questa operazione che crede di essere multiculturale ma finisce per fare scempio di culture altre offrendole in pasto alla sensibilità di un pubblico radical chic che crede così di contribuire così alla causa dell'antirazzismo.
Questo, beninteso, ben al di là delle intenzioni del suo autore Gaspare Balsamo che però è troppo narcisisticamente chiuso dentro la sua creazione, né davvero musicale né veramente teatrale, per rendersi conto dei fraintendimenti che il suo lavoro può facilmente creare. Una maggiore attenzione a quel che si racconta, una maggiore precisione etnomusicale, una maggiore precisione scientifica insomma gioverebbe a un lavoro che così com'è rimane un pout-pourri insignificante se non come momento gregale che, politicamente parlando, ha la stessa valenza di una serata di liscio con tutto il rispetto per questa forma musicale.
Sicuramente di diverso avviso saranno i 100 migranti ospiti del Centro Enea che, grazie al progetto teatro Sostenibile (che per mano dell'associazione produzionepovera ha coinvolto diversi commercianti del quartiere Garbatella che hanno acquistato un totale di 100 biglietti, spendendo in tutto 500 euro) hanno potuto assistere allo spettacolo gratuitamente, spettacolo che, si legge nel comunicato, illustra al pubblico straniero la strada per l'affermazione della propria identità.
Ma quanti dei cittadini di cultura italiana hanno colto al di là del suo esotismo la dignità di una lingua e cultura altra?

Gaspare Balsamo
TRATTE …harraga dei mari e dei deserti
Testo e regia: Gaspare Balsamo
Con: Gaspare Balsamo e Mambaye Diop, Silvia Balossi e Carmelo Cacciola


Joy di teatro Inverso, ovvero Davide D'antonio e Roberto Capalbio,  è un divertissement, una declinazione della perfoming art, atta a dissolvere le certezze del nostro esistere basate sull'acquisizione dei beni materiali che vengono indagati nella loro duplicità di possesso come compensazione e status symbol, e la loro intrinseca inutilità.
In un agglomerato di oggetti, sedie, giocattoli, delimitate da una striscia di diodi blu, mentre un display luminoso ricorda, a loop, che un corpo umano di 75 kg contiene 45 kg d'acqua, calcio per imbiancare un pollaio, ferro per un chiodo di 5 cm, grasso per 70 saponette, fosforo per 2500 fiammiferi, carbonio per 900 matite e un cucchiaio di magnesio. Intanto, nel mucchio di oggetti accatastati un uomo sembra dare il via allo spettacolo con il fare di chi si appresta a vendere un prodotto in una fiera campionaria ma poi, messo mano al microfono vi rinuncia a parlarvi dentro e inizia a interagire col pubblico chiedendo  cose all'orecchio mentre gli interpellati reagiscono in vario modo...  Si tratta di collezionare vari oggetti (stasera parliamo di cose vostre). In cambio ottengono delle sedie (si sta assiepati in piedi o seduti per terra ad assistere alla performance). Intanto un secondo uomo, nascosto all'interno di un cubo di plastica, rivela la sua presenza azionando il motore di un frullatore tradendo così una vocazione luddista che lo portano a voler distruggere gli oggetti sia quelli già accatastati sia quelli che collezionano entrambi dal pubblico, ne nasce una competizione, una  lotta per il possesso (e la distruzione) degli oggetti. Intanto il primo che sottrae gli oggetti alle mire distruttive del secondo adducendo motivi di valore affettivo, alterna telefonate con la madre che lo tempesta delle classiche raccomandazioni mammesche a conversazioni con l'Istituto di Astrofisica Bohr di Copenaghen al quale ha fatto una domanda:  come mai la massa dell'universo può decidere se questo si espande all'infinito o invero torna a comprimersi in un nuovo big bang mentre per noi l'accumulo di oggetti  è segno di felicità?
Questa a grandi linee la struttura di una performance la cui linea drammaturgica è ottenuta attraverso il metodo della composizione istantanea che alterna a momenti  chiaramente prestabiliti altri di improvvisazione in base al luogo e alla reazione dei presenti che i due interpreti/performer sanno condurre e prendere spunto con celata maestria. Uno spettacolo ludico, divertente, di partecipazione collettiva, perfetto per luoghi non canonici di rappresentazione quali il foyer del teatro (o il sovrappasso Atac dove doveva svolgersi in un primo momento). Il pubblico partecipa, divertito prestando oggetti più o meno personali (borse, soprabiti, cellulari, ombrelli) con insolita accondiscendenza. Per la durata della performance gli spettatori vivono liberi dalla schiavitù degli oggetti, mentre il display ricorda che piuttosto che tornare polvere potremmo a nostra volta essere degli oggetti, peccato che conclusasi la performance tutti si avventano a riprendersi il maltolto e lo status quo venga così  ristabilito...


JOY  
Teatro Inverso
Ideazione e regia: Davide D’Antonio e Robe
Con: Davide D’Antonio e Roberto Capaldo
 

Zweisam è una coreografia, in prima italiana,  tenera e incantevole relegata purtroppo a un orario peregrino (oltre le 23) data anche la sua durata (oltre l'ora) che avrebbe sicuramente giovato vedere in prima serata.
La coreografia mostra dapprima una giovane donna (che vediamo in una posa da yoga, accanto a una pianta mentre il pubblico prende posto in sala) danzare prima per la pianta e poi per sé fino a interagire con un uomo. Ne nasce un doppio corteggiamento lei - lui e viceversa, nel quale i due danzatori autori della coreografia Lotte Rutdhart (Germania) e Roberto Zuniga (Costa Rica) trovano soluzioni eleganti, lontani sia dalla danza pura che dalla pura teatralità. Soluzioni sceniche indimenticabili ed efficacissime che si estendono verso la performance (scivolano sull'acqua che piove sul palco di tanto in tanto) riducono la verve coreutica verso forme di drammaturgia (dormono rannicchiati uno sopra l'altra) esibendosi l'uno per l'altra, ora allontanandosi in movimenti solitari, dove ognuno ha le sue peculiarità, lei gioca con la luce che riflette sul vestito cangiante, lui in slip che usa un materasso come sacco per pugili, in una ricerca coreografico/espressiva nella quale, pur partendo dalle caratteristiche fisiche del corpo di entrambi, di due danzatori si muovono senza essere schiavi delle determinazioni sessiste dei corpi maschile e femminile normalmente codificati risultando anzi liberi da schemi preconcetti verso una ricerca coreutica che si traduce in un darsi sul palco con la stessa generosità con cui ci si dà nella vita reale, con gioa, amore, stima e fiducia. Approdando al finale nel quale lui è vicino alla pianta e cerca di mangiarla come aveva fatto lei all'inizio.
Il programma riportato sule note di regia il bisogno di essere veri con se stessi e la brama di donarsi completamente alla persona amata non poteva essere esplicato in maniera migliore, più efficace e completa. Una coreografia che ha l'ambizione dell'enciclopedismo, mostrando tute le possibili combinazioni coreografiche partendo da pochi isolati elementi caratterizzate da una forte nota di originalità. Il pubblico segue incantato e applaude generoso.

ZWEISAM
Idea, coreografia danzatori: Lotte Rudhart, Roberto Zuniga
Produzione: Lotte Rudhart

 

TERZA GIORNATA  16 MAGGIO 2010

La terza giornata di della quarta edizione di Teatri di Vetro si è svolta senza pioggia, permettendo a ogni spettacolo di avere luogo nei siti originali previsti dagli organizzatori. Diversissime le proposte in programma per una serata ad alto contenuto emotivo.

 


2.(DUE)
Mentre il pubblico prende posto, una giovane donna abbondante, strizzata dentro un vestito bianco, dai lunghi capelli rossi (ma in parte sono extension) sta seduta sul bordo di una vasca da bagno, al centro di un ambiente vuoto, delimitato solo dai drappi neri del palcoscenico, dando le spalle al pubblico e facendo bolle di sapone. Stefania Rotolo canta Cocktail d'amore. Uno specchio dalla cornice bianca, appeso sopra la vasca e posto a 45 gradi a favore del pubblico, riflette il contenuto della vasca. Alcuni sacchetti di plastica, anch'essi bianchi, pendono, appesi, contenendo un liquido brunastro. Quando Cocktail d'amore scema la ragazza si avvicina indolente al microfono e comincia il suo monologo nel quale racconta, rivolgendosi ora a lui ora al pubblico, la sua storia d'amore con Luca. Il tono è distaccato, algido, affettato e, a tratti, involontariamente ironico. La donna che si lamenta con Luca di averla fatta soffrire, ricorda le tappe della loro storia d'amore mentre un rumore di sottofondo, come di ossa che scricchiolano, fa da tappeto sonoro per tutta la pièce. La giovane donna rievoca le tappe della sua storia d'amore con Luca fino l'inattesa confessione del ragazzo che le dice mi piace il cazzo (letterale nel testo). Lei elenca tutte le sue aspettative distrutte (convivenza, matrimonio, figli) ma gli rimane accanto anche se lui fa l'amore con lei solo quando ne ha voglia ed è indolente quando non ce l'ha. Un giorno lei vede per caso un film porno a casa di Luca, ne descrive il contenuto (cazzo culo bocca, mano, incisivi immacolati che ingoiano sperma) si chiede annoiata che cosa sia quella roba. Poi mette mano a un forchettone che campeggia in cucina e colpisce Luca, che è ai fornelli, sul collo. Con fare annoiato e compilatorio, senza tradire il minimo coinvolgimento emotivo, la ragazza descrive minuziosamente l'omicidio in tutta la sua efferatezza: uno dei rebbi del forchettone che si piega invece di conficcarsi nella carne, gli schizzi di sangue che la imbrattano, il gorgoglio rauco di Luca, Luca che cade a terra e lei che gli è sopra, schiacciandogli lo sterno col suo peso, i fendenti sul collo e sul resto del corpo fino al soffocamento finale. Nel corso della descrizione la ragazza perfora i sacchetti appesi con uno spillo che celava nel vestito, dai quali comincia a colare una sostanza vischiosa e rossa il cui rumore mentre cade a terra, amplificato da alcuni microfoni, va a sovrapporsi al rumore di fondo. Poi, sporca di sangue, la ragazza si dirige verso la vasca e dopo essersi chiesta chi ha vinto davvero la battaglia, vi si immerge testa compresa (la vediamo dallo specchio) probabilmente per annegarsi.
Licia Lanera è bravissima nella performance rendendo credibile un personaggio altrimenti facilmente riconducibile alla farsa o alla macchietta. Dietro la calma con cui descrive l'omicidio (per la quale i due autori, la stessa Lanera e Riccardo Spagnuolo, si sono ispirati alla confessione di Luigi Chiatti, il "mostro di Foligno") c'è una forza e una capacità di stare sul palco immense.
Anche la messinscena è efficace e impeccabile: l'ambiente, il microfono, il tappeto sonoro, tutto contribuisce allo straniamento col quale lo spettatore deve seguire una vicenda che racconta del disadattamento di una giovane donna sovrappeso che vive nella società con le semplificazioni proposte dalla tv e da un certo immaginario collettivo declinandoli secondo un grottesco gusto pulp.
Il personaggio di questa pièce, che ha debuttato nel 2008, ricorda molto da vicino la protagonista del primo lavoro di Fibre Parallele, quel Mangiami l'anima e poi sputala, del 2007, liberamente tratto dall'omonimo romanzo di Giovanna Furio di cui abbiamo già avuto modo di parlare. Donne ecolaliche, senza un solido principio di realtà, drogate da un consumismo affettivo che le trova totalmente sprovvedute e inclini all'omicidio.
La fascinazione e l'orrore al contempo della pièce risiede nella estetizzazione del delitto e delle manie della protagonista che emerge come personaggio in un contesto che non è mai del tutto realistico, plausibile, ma è sempre emanazione di una presenza inquietante a tratti grottesca, iperbolica e irreale.
L'unico elemento che disturba e solleva più di qualche dubbio è l'omicidio omofobo che viene perpetrato nel corso del racconto quello sì realistico, plausibile, che corrisponde purtroppo a realtà (le cronache son zeppe di omicidi così efferati a danno di persone omosessuali). L'avere scelto un fidanzato che si scopre gay quale elemento disturbante per la psiche già provata della protagonista malcela una omofobia di fondo. Perché Luca deve essere gay? Non può amare un'altra donna? Perché per gli autori l'umiliazione di un fidanzato gay è maggiore di quella di un tradimento etero? Tra l'altro la pièce non parla di partner, di uomini coi quali Luca fa sesso. E' un video porno gay che scatena la follia omicida della protagonista. Non è l'affettività insomma ma il sesso l'elemento portante. Eppure la protagonista, quando ricorda la storia con Luca, non dà al sesso alcuna centralità, dando più peso alle cene insieme, alle feste di compleanno, ai momenti di romanticismo, solo quanto entra in ballo l'omoerotismo l'affettività sparisce e la sfera sessuale campeggia solitaria. Non è dunque il punto di vista della protagonista a emergere, temiamo sia quello dei due autori che come outing fanno dire a Lucami piace il cazzo la parte per il tutto, l'organo sessuale per la persona come se il sesso omoerotico fosse solo consumo e non affettività.
Ecco cosa troviamo di imperdonabile nel testo, di più, di criminale, la banalizzazione pulp di un omicidio omofobo. Perché se nella realtà donne come la protagonista della pièce non esistono ed è chiaro il lavoro iperbolico di denuncia di certe tipologie di pensiero, purtroppo gli omosessuali vengono ammazzati proprio in quel modo ma su questo lo spettacolo criminalmente tace.
Ci piacerebbe che gli autori rispondessero a queste osservazioni che pesano sulla pièce come la protagonista pesava col proprio corpo sullo sterno del povero innocente Luca.


2.(DUE)
Uno spettacolo di Licia Lanera e Riccardo Spagnulo
Vincitore del primo premio Fringe/L’Altrofestival al 18° FIT di Lugano in Svizzera - finalista di EXTRA - Con: Licia Lanera

 

Finalmente ripristinati i luoghi originali del festival Più che piccola, media di Muna Mussie, ha avuto luogo nel cortile del lotto 15 di Garbatella.
Mentre su nastro registrato una giovane donna  racconta i ricordi d'infanzia della sua numerosissima famiglia (14 tra fratelli e sorelle lei compresa) vediamo una giovane donna bere lentamente una pinta di birra (la media di cui si accenna nel titolo della pièce), e poi gettare delle monete sul prato, mentre una seconda donna si poggia al muro usando un vassoio a mo' di aureola ponendoselo dietro la testa, e una terza donna gioca con un bambino, che poi, da solo, si diverte a sparare contro gli astanti con una pistola giocattolo. Il racconto registrato si alterna con alcuni brani musicali occidentali e non. Un piccolo racconto elegiaco dove la famiglia numerosa di ieri si sovrappone a quella di oggi e dove la dislocazione temporale e geografica della medesima si perde e confonde nel gioco performativo delle attrici. Un happening adatto a un festival, in uno spazio consono e apprezzato dal pubblico, ma che, nel panorama delle produzioni teatrali del festival, lascia un po' il tempo che trova.

PIÙ CHE PICCOLA, MEDIA
Di Muna Mussie
Con: Sonia Brunelli, Irena Radmanovic, Manoel Morelli e Muna Mussie

Serate Bastarde della compagnia Dionisi presenta una serie di quadri caustici, ironici, comici, drammatici, monologhi, scene a due e a tre, anche in video, nella cornice narrativa, al dire il vero un po' debole, del presunto suicido di una delle tre attrici dello spettacolo, Renata Ciaravino, che resuscita in video (girato come film muto con tanto di didascalie), ed entra trionfale a teatro elargendo caramelle. Renata si cimenta come presentatrice televisiva di un reality che vede protagoniste donne con gran parte del corpo ustionato (sfruttando le cicatrici vere di Carmen Pellegrinelli), poi in un monologo esilarante su una donna di sinistra nel 2010. Seguono un monologo toccante, magistralmente interpretato da Silvia Gallerano, su di una pensionata con figlio malato di mente che si sfoga aiutando il figlio a dar fuoco con la benzina a un barbone pakistano, e un altro monologo altrettanto toccante, sulla precarizzazione delle nostre esistenze, interpretato da Carmen Pellegrinelli, che induce donne normali a prendere dai cassonetti cappelli sporchi di merda. Un secondo video in cui le tre protagoniste si cimentano in una versione araba di Sex and the City anche se vuole ironizzare sul divari lo stile di vita occidentale e le condizioni di miseria che ci sono in medio oriente risulta superficiale e rischia di far ridere di e non con le donne arabe, ritratte sempre col burqua...
Tra bustine regalate alle donne in sala che contengono lo sperma di Silvio Berlsuconi (che le tre attrici in scena assaggiano estasiate) e racconti sulle condizione sempre più precarie del nostro vivere Serate Bastarde è uno spettacolo divertente e disperato, un buon esempio di teatro civile, che partendo da alcune storture dell'Italia del nuovo millennio racconta con impegno civile e ...civile disimpegno il delirio televisivo di un vivere sempre meno solidale. Tra battute acute e momenti drammatici tra esibizioni fisiche e tragedia la compagnia Dionisi (Renata Ciaravino e Carmen Pellegrinelli, qui insieme a Silvia Gallerano) si concedono in uno spettacolo che, proponendo una fisicità del corpo dell'attrice forte e inedita (la gara a chi ha il seno più grande e meno calante durante la quale le tre donne mostrano davvero il seno) innestano sulla concretezza del corpo dell'attrice (le ferite da ustione di Pelegrinelli) un discorso altro che per quanto grottesco e surreale (come quello dello show televisivo) dimostra un occhio critico ancora molto attento. Un'iniezione di ottimismo per una resistenza all'omologazione sempre più stanca e priva di artigli.
Il pubblico tributa con entusiastici e rumorosissimi applausi le tre attrici-autrici che tornano più e più volte a prendersi i meritati applausi.

SERATE BASTARDE
Dionisi (Milano)
Con: Renata Ciaravino, Silvia Gallerano, Carmen Pellegrinelli
Assistant Director e light/designer: Carlo Compare - Film-making: Elvio Longato

L'ultimo spettacolo di una ricca e intensa giornata è il primo studio di Città di Ebla di Forlì ispirato liberamente al racconto di Kafka La Metamorfosi.
Alla scorsa edizione di Teatri di Vetro Città di Ebla era presente con un intenso lavoro
Pharmakos movimento II Atto Barbaro che si distingueva per la sua alta qualità performativa.
Città di Eblasi distingue per la precisa fisionomia della ricerca e dell'allestimento scenico dei propri lavori dove il teatro si fonde con l'istallazione d'arte in un connubio felice e riuscitissimo.
Questo primo studio (chiamato "prima mutazione"), già maturo ed efficacissimo, prende ispirazione dal racconto di Kafka senza avere la pretesa di rappresentarlo, perchè, per stessa ammissione di Claudio Angelini, autore e attore del progetto, le vicissitudini di Gregor Samsa sono intraducibili scenicamente.
Partendo dalla fascinazione che quel racconto ha su generazioni di lettori Angelini indaga sul senso profondo della metamorfosi che ricorda la metamorfosi continua del nostro corpo, un corpo che brulica di vita animale, preferendo alle ovvie e scontate letture psicanalitiche la lettura acuta di Gille Deleuze che vede nella metamorfosi non un simbolo di inumanità ma l'immanenza di una sub-umanità animale, qui e ora: trasformarsi in animale piuttosto che chinare il capo e restare burocrate ispettore giudice e imputato.
Questa trasformazione è impossibilitata dalla macchine che soggiogano l'umanità quelle della famiglia, del lavoro e dell'amore come riporta Angelini nelle splendide note che accompagnano questo primo studio.

Il risultato scenico è una istallazione complessa nella quale campeggia una stanza da bagno ricostruita sulla scena, con tanto di lavello, vasca, doccia e water, la cui parete frontale è di plexiglas trasparente che consente di vedere l'interno. Sulla sinistra, fuori dalla stanza da bagno,m una poltrona e un tavolino con telefono. Un uomo, dopo essersi spogliato mentre ascolta alcuni messaggi lasciati sulla segreteria telefonica, nei quali varie persone a vario titolo gli ricordano tutti i suoi obblighi sociali, di manager, di figlio di fratello, cerca di sottrarsi a un perentorio invito a cena del padre, chiudendosi nell'intimità del bagno, dove può stare con se stesso, seguendo i ritmi del suo corpo abbandonandosi a percorsi fisici dimenticandosi dapprima del mondo esterno e poi tornando a guardarlo al di qua del plexiglas, sorta di membrana che dal mondo lo separa. Ma da quel bagno esce comunque ed è costretto a rientrare nella macchina affettiva che credeva di aver abbandonato. Si veste di un esoscheletro a forma di scarafaggi e si reca alla festa.
La prova di Alessandro Bedosti è fisicamente intensissima, lo vediamo immergersi nella vasca, uscire madido, accucciarsi sul lavabo e pendere sotto di esso, trascinarsi nella doccia avvolgersi nella tenda di plastica come in un bozzolo arrampicarsi come un ragno sulla parete di fondo, guadagnare un'uscita celata nostra alla vista che lo fa emergere dalla sommità della struttura dalla quale discende dimostrando notevolissime doti fisiche.
Una complessa partitura sonora, non solo musicale ma fatta anche di rumori e di silenzi, usando anche accelerazioni e dilatazioni della registrazione ottenendo un suono diluito o compresso costituiscono l'indispensabile controparte di un doppio percorso quello del personaggio in scena e quello dell'esperienza dello spettatore.
Una istallazione di rara eleganza, un primo studio denso di suggestioni e di possibilità interpretative.
Uno dei gioielli di questa quarta edizione di Teatri di Vetro, so far, ospitato nella nuova sede di
Angelo Mai

LE METAMORFOSI prima mutazione
Città di Ebla (Forlì)
Creazione scenica liberamente ispirata al racconto di Franz Kafka
Ideazione, luci e regia: Claudio Angelini - Aiuto regia: Valentina Bravetti
Interpretazione e studio sulla figura: Alessandro Bedosti

 

 

QUINTA GIORNATA 20 MAGGIO 2010

La serata odierna di Teatri di Vetro è dedicata alla danza con un ricco programma di coreografie che spaziano diversi ambiti della ricerca contemporanea ai quali si aggiungono le coreografie già presentate nei giorni precedenti (Feroce prèsence eZweisan).

Vinnie Straniero, presenta in prima italiana la sua piccola (nella durata) coreografia a due 100 schritte [100 passi]. Una ricerca coreografica sull'incontro tra un uomo e una donna. Ognuno con le proprie peculiarità caratteriali che vanno al di là di quelle   catalogate dall'appartenenza ai sessi. In scena un uomo e una donna. Lui è pavido, forse timido, più contenuto nei movimenti di lei, che si muove seguendo un suo stile, che non modifica nemmeno quando incontra lui. Insieme costruiscono passi a due o vanno ognuno coreograficamente per contro proprio. La voce di catrame di Paolo conte, in Via con me sancisce l'incontro-scontro, il corteggiamento suggerendo una danza a due. Uomo e donna sono simili e dissimili sembra dirci la coreografia, simili quando entrambi cadono a terra presi dalla stessa emozione, dallo stesso movimento, dissimili quando le belle prese in cui lui la accoglie letteralmente su di sé, durano poco, perchè lui perde subito interesse la lascia scivolare a terra (un omaggio evidente a Pina Baush) mentre la musica li incalza e li costringe inesorabilmente in un passo a due che li vede concludere insieme anche se nessuno può garantire che durerà...
Sul palco oltre a Vinnie Straniero, Paolo Fossa, partner ideale della coreografa con la quale collabora da tempo.
Una coreografia agile, divertita, elegante.

100 SCHRITTE – 100 PASSI
Vinnie Straniero (Colonia) - (prima italiana)
Coreografia di Vinnie Straniero
Con: Vinnie Straniero, Paolo Fossa


Francesca Foscarini ha presentato la sua prima coreografia Kalsh finalista al concorso GD’A Veneto 2009. Sola sul palco Francesca Foscarni sviluppa una coreografia che parte dal movimento a terra, impiegando una partitura visiva, prima ancora che di movimento, complessa e articolata che la vede muovere su direttrici motorie proprie e diverse arti e busto. Un movimento che, pur se la inchioda a terra, una volta accettata questa costrizione, la lascia libera di creare composizioni complesse senza mai alzarsi del tutto. Francesca si sposta sul palco agile e polimorfa come un insetto, o un ragno. La notevole ricerca coreutica passa anche per elementi esornativi (l'imposizione delle mani sul viso, la posizione dei piedi) dove le doti atletiche della danzatrice sono in perfetto connubio con la sua sensibilità di ballerina. Spostandosi di lato ora con la forza elle gambe, ora con quella delle mani, ora con quella del solo busto, mentre gli arti sembrano godere di vita propria, Francesca ci affascina danzando a terra con l'energia prima languida e malinconica del corpo che s'abbandona poi con la determinazione del corpo che si muove malgrado tutto e che trova l'energia per i continui tentativi di alzarsi, sempre più decisi ma mai risolutivi finché il corpo vince la gravità e guadagna la stazione eretta. Una coreografia ispirata di più nella prima parte, quella che si svolge a terra, che nella seconda, quando da quei movimenti laterali il corpo riesce a trovare la forza morale prima ancor anche fisica per alzarsi Kalsh segna il debutto interessante di una coreografa da tenere d'occhio.


Francesca Foscarini (Vicenza)
KALSH
Coreografia e danza: Francesca Foscarini

 


Beatrice Magalotti e Giovanni Magnarelli sono due assidui frequentatori di teatri di Vetro, anche nelle edizioni passate hanno portato lavori che testimoniano del loro percorso artistico che ora scopriamo essersi incrociato con risultati apprezzabili e interessanti.
Provenienti da due esperienze diverse quella di attore per Magnarelli quella di danzatrice e coreografa per Magalotti si sono incontrati al crocevia di un percorso che li ha condotti da strade diverse allo stesso risultato, meglio, alla stessa ricerca dove la danza e la recitazione diventano strumenti tramite i quali indagare la persona e il comportamento umani. Già individualmente avevano approntato spettacoli (non riusciamo a trovare una parola meno imprecisa e vaga), nei quali le emozioni e sentimenti umani conducevano a ibridi di teatro e danza (HOH-H SLEEPY WALL di Beatrice Magalotti) o a performance fisiche e mimiche (Sconcertolamento da stress di Giovanni Magnarelli) o a presentare spettacoli paralleli (come Herr Glass di Magnarelli rivisitazione di un attore di una coreografia di una danzatrice (Esercizi di nuoto? di Magalotti. Adesso si presentano insieme sul palco proponendo  con Animalhome una ricerca sulla presenza/assenza dell'umano, partendo da una doppia opposizione, quella del maschile/femminile come irriducibile presenza differenziante, e quella dell'organico/inorganico, del rapporto cioè tra umanità e gli oggetti la produzione dei quali come utensili ci ha dapprima differenziati dal resto del contesto biologico evolutivo corrompendosi, nell'arco, brevissimo in termini evolutivi, della nostra civiltà in un capovolgimento di senso dove gli oggetti non sono più emanazioni umane ma menomazioni umane, sostituzioni, mutilazioni dell'organico umano dove l'occhiale da vista non è più una estroiezione dei nostri occhi ma il segno permanente di una cecità fisica alla quale sopperiamo con degli oggetti.
In un contesto non canonico (il cortile di uno dei lotti del quartiere Garbatella di Roma) i due performer allestiscono uno spazio, delimitato a terra da un perimetro, con alcuni oggetti, occhiali, giornali quotidiani, una scopa, dello spago, li spostano, li rispostano, valutando dove e come metterli, intanto si scrutano, si guardano, si studiano. A un occhio distratto potrebbero sembrare i tecnici che allestiscono la scena. Poi una luce sagomata li illumina e i due performer si cimentano con una partitura sonora molteplice, da un lato un ticchettio da orologio, di meccanismo, che li fa muovere e agitare, come esemplari organici in un parterre di esseri viventi più vasto non troppo dissimili dagli alberi le piante, o dai gatti e dagli uccelli che popolano il cortile, dall'altro con una musica, di diversa natura, che li costringe a un confronto nel quale l'organico lascia spazio al simbolico, alla parte culturale del nostro essere biologico, partendo dalle differenze di carattere/comportamentali sessuate, passando attraverso un confronto fisico che sfocia in una ricerca di movimento quasi coreutica dove elementi iconografici (una mela che Magnarelli inserisce nel proprio corpo dal costato fino a farla giungere al cuore) o semplici oggetti, due paia di occhiali che i due performer indossano, scambiandoseli di continuo (occhiali culturali, occhiali come punti di vista, occhiali come occasioni di confronto e di crescita), quotidiani letti con la stessa apprensione per le notizie riportate, danno il segno tangibile di un percorso doppio tra oggetto e performer, tra inorganico e organico ma, naturalmente, anche tra performer e pubblico, tra scena e attore, e danzatrice.
Una performance a-narrativa che procede per associazioni mentali, stati d'animo, sinergie suggerite dalla musica, dai movimenti, seguita dal pubblico (non solo quello che segue normalmente le serate del festival ma anche quello più restio degli abitanti del lotto) in attento silenzio, che apprezza e capisce.
Una istallazione (altra parola inadeguata) che travalica la danza e il teatro contenendoli entrambi portando queste due forme d'arte in una nuova dimensione, intrigante, ludica, enigmatica, unica, che non annoia, non pecca di intellettualismo ma dice a ognuno qualcosa di diverso secondo le sue possibilità.


 

ANIMALHOME

G.M.B.M. (Roma) - (debutto)

Con: Beatrice Magalotti e Giovanni Magnarelli - Luci: Marco Fumarola

Co-produzione: OFFicINa1011 di triangolo scaleno teatro, Duncan3.0


 

Relegato in un orario tardo, per motivi di programmazione, ha concluso la serata lo splendido, felicissimo e indimenticabile Non facciamone una tragedia della compagnia italo-svizzera Progetto Brockenhouse.
Lo spettacolo si dipana sul filo del ricordo, meglio, dell'evocazione di altri tempi fatta dal primo attore che compare sulla scena in francese...
Alcune sedie impilate e nascoste sotto un telo vengono disposte a terra. Qualcuna priva seduta, altre integre. Altri cinque personaggi entrano in scena, tre uomini e tre donne in tutto dall'aspetto bohémien, i vestiti intrisi di polvere che viene fuori appena si muovono, si toccano, danzano, e sviluppano un racconto tra danza, teatro e certi equilibrismi da circo. Inventano danze dove, indossando in due lo stesso cappotto, riescono a danzare come corpo unico dove gli arti dell'uno sostengono il corpo dell'altra, come gli antichi uomini del convivio di Platone. Uomini e donne in solitaria partecipazione guardinghi gli uni delle altre, gli uomini eterni bambini in competizione per improbabili passi di danza, le donne più disposte a fare causa comune, a sostenersi, fare gruppo. Corpi desideranti, soggetti e oggetto di desiderio dove una volta tanto sono gli uomini a spogliarsi e quando l'attore chiede in francese chi vuole fare l'amore con lui gli altri cinque personaggi si presentano maliziosi, imbastendo un passo a sei, una sorta di trenino delle feste bifronte con gli uomini e le donne opposti. Tra momenti di equilibrismo vero e proprio che sfocia nel più squisito Cabaret, senza soluzione di continuità, come in un sogno, ogni passaggio nasce da un sentimento, un ricordo, un'associazione mentale, o visiva, su un gesto, uno sguardo, un costume, tra Lynch e Fellini, ma non in un intento citazionale quanto, piuttosto, nella riscoperta arcaica di elementi comuni di un immaginario collettivo che gli autori fanno risalire alla tragedia greca da cui dicono di essersi ispirati ma che a chi scrive evocano piuttosto il passaggio dall'otto al novecento, quando la cultura di cui oggi vediamo solo le macerie germogliava di forti speranze che ci hanno condotto a due guerre mondiali. Uno spettacolo soave, leggero, che sembra farsi da sé come se i suoi autori attori danzatori fossero presi dalla febbre del palco che li fa muovere al di là della loro volontà. Uno spettacolo che emoziona, commuove, fa ridere di gioia, che ha qualcosa da comunicare al suo pubblico e si sente, scevro da certi intellettualismi che a volte colpiscono gli spettacolo incentrati su una ricerca visiva, perchè quel che vediamo sul palco rimanda sempre a una introspezione nei meandri più segreti della nostra cultura, del nostro bisogno di essere ricordati e di aver vissuto bene piuttosto che di vivere.

 

NON FACCIAMONE UNA TRAGEDIA
Progetto Brockenhaus (Lugano)
Creazione e interpretazione: Elisa Canessa, Elisabetta di Terlizzi, Piera Gianotti, Federico Dimitri, Francesco Manenti, Emanuel Rosenberg
 

Visto il 14-05-2010
al Palladium di Roma (RM)