Il Teatro Stabile di Bolzano si affida alla tromba di Paolo Fresu per raccontare vizi e virtù di un mito musicale. Chet Baker, genio e sregolatezza, inferno e paradiso del cool jazz.
Chet Baker, genio e sregolatezza, inferno e paradiso del cool jazz, rivive sulla scena nello spettacolo scritto a quattro mani da Laura Perini e Leo Muscato, che ne firma anche la regia. In scena otto attori e tre musicisti, ma soprattutto la tromba di Paolo Fresu che evoca lo stile lirico e intimista del musicista di Yale.
Vita disordinata e rigore musicale
In un jazz club, probabilmente proprio il Chet Baker Club che avrebbe dovuto aprire a Milano, si svolge tra presente e passato, fusioni e sovrapposizioni musicali, la vita maledetta di uno dei miti musicali più controversi e discussi del Novecento, tra un bancone dietro il quale si alternano occhialuti baristi, un tavolino con qualche sedia e una poltrona in pelle rossa. Testimonianze si intrecciano in una lunga catena emozionale: dall’editore di sempre ai musicisti che lo hanno accompagnato, dalle leggende viventi come Charlie Parker alla moglie Carol Jackson, da cui ebbe tre figli. E ancora flashback dove riemergono il padre alcolizzato, ma grande appassionato di jazz e gli amici delle prime impavide scorribande notturne, oppure balzi temporali in avanti che proiettano Chet in fuga dalle polizie di mezza Europa.
Ma la vita di Baker non può essere affidata ai soli fatti, è la musica la vera compagna di ogni vittoria o sconfitta: così la tromba di Fresu agisce da incessante contrappunto, si inerpica su ogni momento di disperazione o di euforia, si fa spazio nel rigore formale della musica di una vita così disordinata e complessa.
Due piani che restano separati
Pur puntando alla continua contaminazione tra note e parole, lo spettacolo rivela proprio in questo il suo maggior limite. I due piani non si fondono mai per davvero e anzi, più di qualche volta, l’impressione è che si disturbino a vicenda. La musica risulta preponderante, il che non sorprende trattandosi della vita di un musicista, la parte in prosa invece fa fatica a decollare, incespica, diventa a tratti meccanica. Un esempio tra tutti: l’espediente dei testimoni che si danno il cambio sulla poltrona rossa, declinando il proprio nome e il rapporto con Chet, si rivela presto didascalico e fin troppo narrativo. A questo si aggiunge che la scrittura drammaturgica moltiplica tali testimoni a dismisura, costringendo gli attori a rivestire tutte le parti con cambi di costume, che spesso fanno l’effetto di un grottesco travestimento.
La sensazione è che lo spettacolo suoni falso e che a tratti scivoli nel macchiettistico; quasi inspiegabili per esempio i continui contorcimenti di Chet a terra, mentre le sue note suonano profonde nella loro verità, così come assolutamente vera ed emozionante arriva nell’ultima scena la voce originale del trombettista. E sul sipario che si chiude attori e musicisti, tutti in piedi in una sorta di standing ovation, ascoltano rapiti la magia musicale di quell’anima dannatamente pura che era Chet Baker.