Lirica
TENEKE

Milano, teatro alla Scala, “T…

Milano, teatro alla Scala, “T…
Milano, teatro alla Scala, “Teneke” di Fabio Vacchi Venezia, teatro La Fenice, “Signor Goldoni” di Luca Mosca NEL CONTEMPORANEO Sabato sera “Teneke” alla Scala in prima esecuzione assoluta; domenica pomeriggio “Signor Goldoni” alla Fenice, prima replica a due giorni dalla prima esecuzione assoluta, una ghiotta (e non usuale) occasione di musica contemporanea. Italo Calvino sosteneva che i classici in letteratura sono quelli che non smettono mai di dire quello che hanno da dire; io allargherei alla musica, aggiungendo che i classici della lirica sono quelli che non smettono mai di dire quello che hanno da dire, parimenti. Quindi se è vero che ascoltare un classico per l'ennesima volta è sempre una nuova e rinnovata emozione, vuoi mettere l'emozione di ascoltare per la prima volta una composizione mai suonata prima? Teneke è tratto da un racconto breve di Yaşàr Kemal pubblicato nel 1955 e racconta una brutta storia di corruzione e di ordinaria sopraffazione nell'Anatolia rurale, dove piccoli proprietari terrieri allagano i campi (con il beneplacito del governo centrale rappresentato da un giovane e debole kaymakam) al fine di coltivare riso, diffondendo malaria e fame. Teneke è il nome di tamburi rudimentali di latta (spesso realizzati con barattoli) il cui suono rimbomba verso la fine della partitura; con essi il popolo esprime la propria esasperazione. Franco Marcoaldi ha scritto un libretto compatto ed essenziale che, in scene brevi ed efficaci, tratteggia l'avvicendarsi ed il crescendo emotivo della vicenda, con un andamento che rimanda ad espressioni bibliche. La partitura di Fabio Vacchi mostra un grande passo avanti rispetto alla precedente produzione, con una complessa ed articolata costruzione musicale, basata su un'orchestra numericamente rilevante e su un accentuato utilizzo di materiale etnico, lasciando spazio agli strumenti solistici, ma soprattutto ad un grande affresco corale, dovuto ai dodici proprietari terrieri e al coro vero e proprio, entrambi “personaggi” che hanno azione vera e propria e non solo ruoli di intermezzo o commento. Il carattere introspettivo tipico del suo teatro musicale si unisce a una importante dimensione collettiva, dove si indagano le dinamiche sociali e le trasformazioni culturali che influenzano i comportamenti e la psicologia dei singoli. I ruoli dei protagonisti sono interpretati ottimamente dai cantanti: dalla Nermin tenera e sognante (una ieratica Rachel Harnisch, la fidanzata lontana, quasi ultraterrena) alla Zeyno forte e determinata (Anna Smirnova, una specie di Santuzza che arringa il popolo), dal Fikret idealista e innamorato, pieno di dubbi (un sorprendente Steve Davislim, meglio che nei ruoli mozartiani cantati di recente) al Resul Efendi sottomesso (un ottimo Andrea Concetti, convincente nella recitazione, “il poveretto trema come una foglia al vento”), dallo spavaldo Okçuoglu (l'eccellente Nicola Ulivieri, impeccabile e volitivo) al combattivo e malinconico Memed il Curdo che alla fine abbraccia un fucile (Alessandro Paliaga, nel programma di sala trasformato in “Alessandra”); con loro il medico di Angelo Veccia e i dodici proprietari terrieri, Luca Dellacasa, Krystian Krzeszowiak, Giovanni Caccamo, Luca Favaron, Leonardo Andreotti, Vito Martino, Roberto Lizzio, Davide Rocca, Filippo Tuccimei, Nicolàs Lartaun, Emilio Casali, Riccardo Ristori. La direzione di Roberto Abbado, alla guida di un'orchestra in stato di grazia, ha sottolineato con precisione e partecipazione emotiva le divergenze e le originalità della partitura. Ottimo l'apporto del coro, preparato da Bruno Casoni. La regia di Ermanno Olmi, che con Fabio Vacchi ha un lungo sodalizio artistico (da cui sono nati film epocali come”Cantando dietro i paraventi” ma soprattutto “Il mestiere delle armi” e “Centochiodi”), esalta la dimensione epica della narrazione, è improntata ad un estremo realismo, con gesti naturali ed essenziali, ed è rispettosa del libretto e del plot, centrata su grandi scene corali contadine: forse presenta in alcuni momenti eccessi di staticità, dovuti in parte alla interiorizzazione della vicenda, in parte alla difficoltà di muoversi su una scena quasi impraticabile. Arnaldo Pomodoro ha occupato il palco con una grande scultura fissa, il fianco fortemente scosceso di una montagna arida, riarsa, sassosa, inospitale nella sua desolazione, che non cambia con l'allagamento, quando alla massa di fango si sostituisce in modo assai efficace una massa d'acqua, sempre e comunque inospitale come il mondo votato alla produttività (“produzione” è il motto dei dodici proprietari terrieri) ed alla ricerca spasmodica di beni materiali (l'elaborazione video è dello Studio Azzurro). Peccato che in scena non si è visto quel significativo gorgo di fango che c'è nel libretto di sala, un vortice melmoso che fa scomparire lo scuro parallelepipedo dove sono ambientate le scene di interni. Le luci efficaci sono disegnate da Gianni Mantovanini. Il finale resta aperto, con il kaymakan che se ne va ammalato di malaria, accompagnato da una lunga pagina sinfonica che è uno dei momenti più alti della partitura. Il pubblico ha tributato un autentico trionfo, con applausi entusiastici e non il solito fuggifuggi appena si abbassa il sipario, risultato eccellente per un'opera contemporanea non di facile ascolto ma che rimarrà. La serata è stata dedicata ai 25 anni del Vidas. Se Teneke è improntata a un deciso verismo, antirealistica è invece “Signor Goldoni” (commissionata dalla Fondazione La Fenice a Luca Mosca nell'ambito delle celebrazioni per il tricentenario della nascita dello scrittore), dove si immagina che Goldoni, in compagnia di un inventato Anzolo Rafael e di Giorgio Baffo, torni a Venezia per un'ultima sera (anzi nel mondo del teatro veneziano), invitato a un ballo in maschera tra sfide e disvelamenti, che coinvolgono anche personaggi shakespeariani. Il libretto di Gianluigi Melega è in inglese per raggiungere un pubblico più vasto; la scrittura musicale cita illustri precedenti, Britten, Stravinskij e Shostakovich, agli antipodi rispetto al Vacchi ascoltato ieri sera alla Scala: Mosca calcolato e referenziale, geometrico, Vacchi, tumultuoso ed epico, letterario. Come anche opposte sono state le messe in scena. Geniale la scenografia di Santi Centineo, un teatro in prospettiva visto nella prima parte dalla platea (con il soffitto sul fondo) e nella seconda dal loggione (con le poltrone della platea sul fondo); sontuosi e venezianamente settecenteschi i costumi di Giusy Giustino, anche se non ho capito la presenza della diva anni Cinquanta. Fabio Barettin disegna le luci, che continuamente rinnovano la scena. La regia di Davide Livermore è molto curata, fresca e gioiosa, piena di fantasia, simbolismi e rimandi ad altra letteratura, improntata a una grande dinamicità (arriva a far ballare persino i cespugli) e riesce a rendere intrigante e coinvolgente una partitura di non facile accesso. Strizza l'occhio al videoclip e dà sfoggio delle sue notevoli capacità registiche, affastellando momenti drammatici, scene comiche, elettricità, avanspettacolo, carnevalate e trucchi da prestigiatore, come nell'inatteso finale in cui i protagonisti spariscono in una valigia appoggiata sopra un tavolo. Appropriato il cast: Barbara Hannigan (Despina), Alda Caiello (Anzolo Rafael), Cristina Zavalloni (Mirandolina), Sara Mingardo (Desdemona), Michael Bennet (Arlecchino), Chris Ziegler (Baffo), Roberto Abbondanza (Goldoni) e Micheal Leibundgut (Othello). Andrea Molino ha diretto l'Orchestra di casa con grande partecipazione. Pubblico tiepido, plaudente nel secondo atto dopo le due arie di virtuosismo di Despina e Desdemona; alla fine successo per tutti, seppure misurato. Comunque un risultato importante per un'opera contemporanea non di ascolto immediato. Due giorni consecutivi di musica contemporanea, due modi diversi di intendere il contemporaneo. Visti a Milano, teatro alla Scala, il 22 settembre e a Venezia, teatro La Fenice, il 23 settembre 2007 FRANCESCO RAPACCIONI
Visto il
al Teatro Alla Scala di Milano (MI)