Filo conduttore del Macerata Opera Festival di quest’anno è la riflessione sul rapporto che intercorre fra cinema e lirica, visto che le due maggiori produzioni di questa edizione, Tosca appunto e Il Barbiere di Siviglia, seppur abbiano avuto storicamente genesi autonoma, finiscono entrambe per toccare proprio questa tematica.
Tosca agli studios
La regia di Valentina Carrasco traspone la vicenda su un set americano degli anni Cinquanta, all’interno del quale vengono apprestate diverse scenografie e registrate contemporaneamente molte produzioni cinematografiche, spezzoni delle quali sono poi proiettate sul muro di fondo dell’arena.
Tutto si gioca sull’eterno rapporto fra finzione e realtà, tuttavia questo eccesso di citazioni e di intrecci contribuisce alla perdita di efficacia del filone drammaturgico ed all’emergere di un’immagine a tratti caotica di una vicenda come quella di Tosca così perfetta e lineare in sé.
La proiezione dei titoli di testa all’inizio di ogni atto fa capire che si sta producendo un film dal titolo “Marengo” del quale si vedono anche girare alcune scene: quella del Te Deum ad esempio, oppure quella del banchetto di nobili e cardinali durante il quale Tosca esegue la propria cantata; tutti momenti turbati da tensioni interne al cast che si tramutano anche in plateali bisticci.
Alcune delle immagini proiettate sul fondo creano un parallelismo fra i fatti narrati e le persecuzioni operate dal senatore McCarthy nei confronti di esponenti della settima arte, uno spunto interessante di per sé, che purtroppo finisce per essere in parte forzato e troppo spesso in contrasto col libretto.
Proprio in quest’ottica si può interpretare la figura di Scarpia che sarebbe una spia del governo inviata per sorvegliare gli studios e il loro operato, un uomo con tendenze voyeristiche che filma ad esempio Tosca mentre esegue il suo “Vissi d’arte”.
Ed è proprio sul finale che la finzione e la realtà, il piano del cinema e quello della verità della vicenda, finiscono per toccarsi. I protagonisti svestono i loro abiti quotidiani per indossare quelli di scena, il tutto sotto l’occhio vigile della telecamera. La stessa morte di Cavaradossi risulta essere poi un tragico errore dovuto al mancato caricamento a salve dei fucili.
Anche l’aspetto vocale e musicale non emozionano particolarmente
Corretta, ma forse non troppo adatta ad uno spazio ampio come quello dello Sferisterio che in questo caso toglie molto alla tensione drammatica, la direzione di Donato Renzetti, il quale ha generalmente staccato tempi un poco distesi e ha dovuto gestire anche alcune incertezze del coro Bellini.
Bella la lettura del terzo atto nel quale il sentimento e i colori fuoriescono più marcati; maggiormente generica, invece, l’interpretazione della parte iniziale.
Antonio Poli è un Cavaradossi scenicamente efficace, ma vocalmente un po’ fuori repertorio. Lo strumento ha un ottimo colore, ma la fatica nella zona superiore è talvolta evidente, soprattutto in particolare in “Recondita armonia”.
Decisamente in parte, invece, Carmen Giannattasio nel ruolo eponimo: si mostra molto solida sul piano vocale, meno, complice certo anche una regia che non facilita una lettura ricca di pathos (il secondo atto ne è l’evidenza maggiore), dal punto di vista interpretativo. Claudio Sgura è uno Scarpia di antico corso, vocalmente robusto, signorile quanto basta, dall’ottimo fraseggio e dalla presenza scenica imponente. Tutti adeguati i comprimari.
Pubblico dell'Arena Sferisterio non molto caloroso; applausi poco più che di cortesia per tutti sul finale.