Lirica
TOSCA

Roma, terme di Caracalla, “To…

Roma, terme di Caracalla, “To…
Roma, terme di Caracalla, “Tosca” di Giacomo Puccini TOSCA ANTICLERICALE Opera tra le più conosciute e forse la più amata di Puccini, anche a guardare gli allestimenti messi in scena subito dopo il suo debutto il 14 gennaio del 1900 al teatro Costanzi di Roma (come si chiamava allora l'attuale teatro dell'Opera), Tosca è un'opera difficile da mettere in scena, soprattutto nell'allestimento scenico e nella regia. Considerato ormai improponibile un approccio filologico, che segua le indicazioni di libretto, ne sono state proposte negli ultimi anni le più disparate letture, come ben elencato nel programma di sala a cura di Anna Cepollaro, per cui, paradossalmente, la parte più facile diventa quella musicale, che, al contrario, dovrebbe essere quella precipua. Ineccepibile la direzione orchestrale di Paolo Olmi, che, nel dirigere l’orchestra del teatro dell’Opera e il coro preparato da Andrea Giorgi, ha saputo ben tenere in conto le caratteristiche particolari in cui l'opera viene messa in scena, le rovine delle terme romane di Caracalla, uno spazio suggestivo e all'aperto, non isolato, purtroppo, dall'inquinamento acustico: dalle sirene dell'ambulanza agli aeroplani, accidenti casuali e incontrollabili, per tacer dell'eco di, per fortuna lontani, fuochi d'artificio, o delle musiche mondane della prospiciente festa dell'Unità, eventi, questi, sui quali qualche tipo di controllo si poteva forse effettuare. Uno spazio che richiede dunque un'amplificazione su cantanti coro e orchestra che vanno a incidere non poco sulla resa dinamica della musica. Interessanti le prove di Giorgio Surian nel ruolo di Scarpia, un basso (in un ruolo pensato per un baritono) dalla voce chiara, di Fabio Armillato in quello di Mario, considerato uno dei tenori più importanti della scena lirica internazionale che dà una buona prova come Mario, brillando per tutta l'opera tranne che per la celebre aria del terzo atto, interpretata un po' sottotono, e di Micaela Carosi, una Tosca energica e dalla voce cristallina. E' l'allestimento che invece richiede tutta l'attenzione, a nostro avviso. L'idea di Franco Ripa di Meana, regista, e di Edoardo Sanchi, scenografo, è quella di astrarre l'opera dalle sue ambientazioni classiche e così specifiche: Sant'Andrea della Vale nel primo atto, Palazzo Farnese nel secondo, Castel Sant'Angelo nel terzo. Di questi due interni e dell'esterno del terzo atto non rimane nulla, solo una traccia visiva nella planimetria fotografica (stile google map) che è stampata sul palco mostrando la foto satellitare di Campo Marzio, il fiume Tevere evidenziato in rosso, mentre cerchiati del medesimo colore sono i tre luoghi dell'opera. La planimetria - pavimento del palco, è l'unico elemento scenografico leggermente inclinato verso il golfo mistico (alquanto angusto e praticamente invisibile dalla platea) che dà sobria mostra di sé. La riduzione in scala della foto a dire il vero fa distinguere solamente il Tevere e piazza Navona, ma si intravede corso Vittorio, che, naturalmente, non esisteva ancora al tempo in cui è ambientata l'opera (1800). Ai margini alcune protuberanze del palco, flettono ora verso il basso ora verso l'alto, celando a sinistra due uscite che si aprono nella scena, delle porte che danno a dei praticabili, mentre a sinistra sono due uscite a cielo aperto. Dietro due tralicci incrociati a formare una rigorosa quanto tecnica croce. L'impressione dell'insieme, se non fosse per la foto planimetrica stampatavi sopra, è quella di una portaerei, immensa e vuota. La scena regala delle sorprese quando due botole rivelano dei passaggi direttamente sul pavimento, nel secondo e terzo atto, mentre la fine del primo è suggellata da un profluvio di fuochi che bruciano all'unisono per qualche istante (riscaldando sensibilmente l'aria), per sottolineare la brama sacrilega di Scarpia (Tosca, mi fai dimenticare Iddio!). Brama ancor di più sottolineata dalla scelta di vestire Scarpia come un prelato, dando al suo desiderio per Tosca un che di anticlericale. Nulla di nuovo nell'evidenziare in Scarpia il simbolo di un male (un potere) assoluto. La presenza clericale, che doveva essere molto più familiare al pubblico degli esordi dell'opera che narra una vicenda patriottica ormai poco sentita, è amplificata dalla presenza massiccia, anche se non sempre musicalmente giustificata, del coro nero-vestito, impiegato alla stregua di pareti mobili che cerca di contenere l'immensa vacuità dello spazio vuoto che costituisce il palco. Un'operazione suggestiva che convince all'inizio (i preti, numerosissimi, si muovono in gruppo, a schiere, a file, sinistra e astratta presenza), ma che scade nell'oleografico quando, interminabile presenza, si attesta come corteo religioso munito di vere fiaccole (così come è un vero agnello quello che il pastorello, all'inizio del terzo atto, porta con sé: ma il verismo non era stato bandito?) per il te deum, alla fine del primo atto. Alcune entrate e uscite del coro, fuor di atto, per così dire, prima che la musica inizi o dopo che si è conclusa, lasciano un po' un senso di confusione. Il limite di questa scelta scenografica sta nel fatto che non sempre rende giustizia alla partitura musicale. Quelli che, nell'intenzione di Puccini, sono accorati e precisi commenti musicali ai gesti dei suoi attori previsti nel libretto (Scarpia che, nascosto dietro una colonna, si mostra all'improvviso a Tosca, facendola trasalire nel primo atto; Tosca che disperata, cerca il salvacondotto dopo aver ucciso Scarpia, nel secondo) si tramutano in situazioni nelle quali i protagonisti, privi di scenografia, non hanno nulla da fare e attendono il momento di cantare, in imbarazzanti pose o in gesti e movimenti amplificati, anche forsennati, date le larghe distanze, da un punto e l'altro della scena. L'enorme passerella che, sfruttando la pendenza del palco si trasforma in tavola, montata per il secondo atto, assieme a un sedile a forma di trono per Scarpia, fa rimpiangere una scena più consueta e meno vuota e sembra contraddire la scelta minimale. Il coltello col quale Tosca trafigge Scarpia è qui un crocefisso con il capo della polizia adorna la tavola in quella che sembra più l'arredo per una messa che quella di un pasto. E' chiaro l'intento di mostrare l'ipocrisia della Chiesa e gli interessi secolarissimi di Roma che poco hanno a che fare col sentimento religioso, ma ci si dimentica di quel popolare e comune sentire religioso che caratterizza anche Tosca, la quale, infatti, subito dopo averlo ucciso, lo perdona. L'opera, la musica, il bel canto, quel testo così ricercato, ne rimangono come schiacciati in una contraddizione visiva che, lungi dall'elevare la musica sottolineandone l'efficacia al di là delle contingenze storiche, fa rimpiangere i più affettati schemi del verismo che almeno funzionano con la partitura, e almeno non scippano lo spettatore del momento più atteso: il salto di Tosca nel vuoto dalla piattaforma di Castel Sant'Angelo. Per esigenze logistico-scenografiche infatti, Tosca non ha modo di gettarsi nel vuoto e la sua minaccia a Scarpia (che è già morto quindi Floria parla pensando già all'aldilà) O Scarpia, avanti a Dio! invece di esser suggellata dal salto nel vuoto che la conduce a lui rimane una minaccia inefficace e composta, come nel suo intimo boudoir Tosca si stende accanto a Mario. Sdraiati entrambi sul palco, là dove la mappa riporta il Tevere, le cui anse evidenziate di rosso sono amplificate dalle luci (rimarchevoli di Agostino Angelini) che tingono dello stesso colore tutta la scena. Un bagno di sangue, o, come suggeriscono le note di regia, nel Tevere. ALESSANDRO PAESANO Visto a Roma, terme di Caracalla, il 21 luglio 2009
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al Terme di Caracalla di Roma (RM)