In attesa del centenario dalla morte di Giacomo Puccini, di questo 90° anniversario ha tenuto intanto conto il Teatro La Fenice, che dal metà aprile sino ai primi di giugno ha presentato nell’ambito di un ambizioso «Progetto Puccini» dapprima “Bohème” e quindi “Madama Butterfly”, riprendendo due recenti e riusciti allestimenti dei quali abbiamo già dato conto ai nostri lettori, e infine, in continua alternanza di recite, un nuovissimo allestimento di “Tosca”. Un progetto che ha previsto per le tre opere centrali e capitali del catalogo pucciniaino dieci recite del primo titolo, nove del secondo, otto del terzo per un totale di ben 27 spettacoli in 44 giorni; uno sforzo dunque ammirevole, premiato da un pieno e costante afflusso di pubblico.
Per la nuova messa in scena di “Tosca” è stata convocata Serena Sinigaglia, una delle forze più valide del teatro italiano di prosa, fondatrice e direttrice artistica dell’Associazione Teatrale Indipendente per la Ricerca, nonché responsabile dal 2007 del Teatro di Ringhiera di Milano. Ne parliamo alla fine; partiamo invece dalla direzione musicale di Daniele Callegari, complessivamente non disprezzabile – il saldo mestiere non si mette in discussione - ma a due facce, come verrebbe da dire: ora all’insegna degli eccessi di matrice verista, con sonorità turgide e sin troppo vibranti; ora ripiegata in indugi edonistici, affondando con lo spettatore in sonorità languide. A farla breve, sembrava latitare una certa coerenza di fondo, specie nelle scelte agogiche; e in qualche modo scareseggiava anche un senso narrativo uniforme, una convincente visione musicale e drammaturgica generale.
Pure la Tosca di Svetla Vassileva non ha persuaso del tutto: la voce può piacere o non piacere, per il suo timbro secco e tagliente che renderebbe bene in linea di principio la figura dell’amante gelosa e nevrotica, ed anche per una indubbia immedesimazione caratteriale; però il canto appare uniforme e mancante di spessore, la gravosa tessitura la trova a tratti scoperta, le modulazioni sono talora difficoltose. Non a caso il momento migliore, quello che non dà adito a critiche, è per il soprano bulgaro quello della intimistica riflessione lirica di “Vissi d’arte”, che qui sì viene servito da un canto commovente e appassionato. Incontestabilmente bella invece, in ogni senso, la voce di Stefano Secco, che ha portato in scena un Cavaradossi poetico ed elegante, tracciato sulla linea ideale del Bergonzi degli anni d’oro; anche perchè questa è una parte assai congeniale al suo timbro caldo, alla pasta morbida del registro centrale, alla facilità di salita a quello superiore, alla generosa tenuta di fiato. Quanto al personaggio in sé, mi è piaciuta la resa di un carattere franco e pieno di slancio, pronto al gesto eroico ma, sotto sotto, quasi timido e trattenuto: cioè, molto più verosimile di tanti Mario baldanzosi fuori, ma vuoti dentro. Il solidissimo Scarpia di Roberto Frontali si inserisce nella scia della più canonica tradizione interpretativa : figuro sadico e torvo, vorace e prepotente, che anche nel mellifluo colloquiare («A che v’offende, dolce signora?») fa intravedere paurosi abissi di malignità. E’ così che il bravissimo baritono romano legge il suo barone-poliziotto, riempendo e dominando la scena con una vocalità autorevole e penetrante, ricca di colori e di accenti espressivi.
Quanto a qualità di voce, Enric Martinez-Castignani non pare un Sagrestano da antologia, però nella spigliata recitazione e nella sapida gestualità si fa perdonare il resto. Esemplare lo Spoletta di Cristiano Olivieri: servile e querulo, descritto a fondo e fraseggiato a dovere; ottimo l’Angelotti di Cristian Saitta, anche se l’opima silhouette stride con le famose parole rivolte a Mario («Non mi ravvisate? Il carcere m’ha dunque assai mutato!»). A completare la compagnia, i corretti apporti di Armando Gabba (Sciarrone), Carlo Agostini (carceriere), Laura Franco (pastorello). Un giusto elogio al Coro della Fenice ora diretto da Ulisse Trabacchin, ed ai Piccoli Cantori Veneziani preparati da Diana D’Alessio.
Per finire, arriviamo allo spettacolo in sé. Serena Sinigaglia – nota per un percorso ‘cross over’ tra riletture di classici e testi d’avanguardia - si è curiosamente mossa con una certa prudenza, senza stravolgere in alcun modo le didascalie del libretto e le indicazioni della partitura; di conseguenza, si è visto uno spettacolo che procede narrativamente in maniera lineare, senza inciampi né stravaganze, riproponendo gli stilemi di sempre e puntando molto sulla verosimile gestualità dei cantanti. Meglio così, in fondo, piuttosto che essere messi di fronte ad incomprensibili stravaganze, buone solo a mortificare il capolavoro pucciniano. Tanto per essere più tranquilla,la Sinigaglia si è portata dietro due collaboratrici fidate, Federica Ponissi per i costumi e Maria Spiazzi per le scene, ed gioco di luci lo ha affidato al talento di Alessandro Verazzi. La scelta degli abiti di questa “Tosca” non esonda dall’alveo della tradizione, presentando tipici tratti del primo Ottocento; si concede però qualche curiosa trasgressione, come l’usura e la polvere di tessuti unti e bisunti, le cotte sudice dei chierichetti, o l’abito viola da Tosca callasiana reinterpretato modernamente, ma segnato da evidenti buchi nella serica stoffa. Il progetto scenico della Spiazzi prevedeva che il pavimento di S. Andrea - spazio senza nessun riferimento liturgico, salvo un’acquasantiera con la Madonna - fosse fessurato da un’enorme crepa a forma di croce che solleva il pavimento, e dalla quale emerge Angelotti in fuga da Castel Sant’Angelo. Per fare spazio al Te Deum, mentre Scarpia stuzzica ll gelosia di Floria Tosca, provvedono dietro le comparse a portar via, a vista, sia una parte del pavimento, sia quanto ingombra: bruttissimo artificio. La crepa poi, nel secondo atto, si allarga ancor più facendo affiorare grandi rocce che rendono il salone di Palazzo Farnese un sito alquanto insicuro, con i personaggi indotti a continui sù e giù per ripidi pendii; sino a che, alla fine della storia, restano in vista solo una scabra landa pietrosa, lasciando lo spettatore a concepire con la fantasia gli spalti della rocca. Leggendo le note di sala, tutto questo ‘tremuoto’ sta a rappresentare l’incuria che affligge i nostri maggiori siti archeologici «perché nessuno se ne occupa (tutti troppo impegnati a corrompersi a vicenda)», come tiene a spiegare la regista milanese. Che c’entri questo con “Tosca”…Visivamente l’effetto visivo non è trascurabile: negando ogni suggerimento visivo della Roma papalina, resta di fronte al pubblico solo l’evocazione di un mondo selvaggio, triste, senza bellezza; e persino i fondali videoproiettati restituiscono una cupa tristezza, ravvivata solo dalle luci solari che avvolgono Tosca. Ma una scenografia come questa – che suggerisce concretamente anche l’affiorare graduale di passioni potenti - poteva andare bene per qualsiasi argomento, dalla “Didone abbandonata” di Metastasio al “Wozzeck” di Berg. E’ forse per questo, per rassicurare lo spettatore, che è stato sparso qua e là qualche oggetto abituale: un grande cavalletto da pittore, la cancellata della cappella Attavanti, la suddetta acquasantiera e poi, per rendere il salone di Palazzo Farnese solo il tavolo della cena di Scarpia (anche se pericolosamente affondato nelle rocce), alcuni grandi candelabri accesi e qualche sedia in velluto; sino alla rarefazione finale che sfocia, come detto, in un nulla volutamente desolato.