Gli allestimenti a Caracalla non possono prescindere dalle rovine, eppure Arnaud Bernard dichiara nell’intervista contenuta nel programma di sala “se avessimo avuto un’altra immagine dietro, sarebbe stato uguale”. La sua Tosca è cinematografica, rectius è il set cinematografico di un film che racconta la storia di Tosca. Carlo Savi ricostruisce i vari ambienti necessari ai tre atti, intorno si muove quella pletora di persone che costituisce il mondo del cinema. I protagonisti aspettano di entrare in scena a vista, seduti sulle classiche sedie a libretto mentre si truccano o leggono un quotidiano. Una telecamera va avanti e indietro su un carrello posto su binario, un’altra è posizionata su un apparato mobile che si alza e si abbassa nel seguire l’azione. Ovviamente l’inizio degli atti è segnalato dal ciak. Tutto ciò nulla aggiunge alla storia né aumenta la spettacolarità, al contrario c’è una eccessiva confusione, inutile e fuorviante per il dramma. I costumi situano l’azione nell’Ottocento per il film, mentre il resto è ai giorni d’oggi.
Alcuni dettagli. Il sagrestano prende a ramazzate uno storpio: politicamente non corretto. Statico, come un fermo scena, il Te Deum, di nessuna efficacia. Truculenta la tortura a vista dentro una gabbia di Mario: calci e ginocchiate a profusione. Concitato l’accoltellamento di Scarpia, poi Tosca, sorpresa dal rullo del tamburo, gli tira addosso un crocefisso e scappa via. Suggestive le immagini a volo d’uccello di Roma (Istituto Luce) all’inizio del terzo atto. “E lucevan le stelle” è priva di pathos: Tosca si avvia verso il camerino, le comparse-carcerieri giocano a briscola in attesa dell’aria. Invece molto bello il finale: Tosca è ripresa live da una steadycam mentre si butta di sotto, soluzione che poteva essere efficacemente usata per il resto dell’opera, anziché fingere di riprendere. Anche perché in questo modo si crea uno scollamento tra l’effetto reality attualissimo del finale e le riprese quasi d’epoca del resto.
Non si può negare al regista di sapere muovere le numerosissime comparse nelle controscene, ricreando alla perfezione l’ambientazione voluta.
Asher Fisch alterna Tosca e Aida; qui impronta la direzione a una certa genericità routinaria di suono, allargando i tempi forse per la difficoltà oggettiva di raccordare buca e palco in una messa in scena come questa.
Csilla Boross ha grande voce e di bel colore: la sua Tosca è fiera e innamorata, capace di salire in alto senza difficoltà e di esplorare le zone gravi in modo suggestivo; per come canta bene tutta l’opera, “Vissi d’arte” è affrontata con troppa cautela e fa emergere poca della passione che è materia fondante il personaggio. Poche emozioni trasmette il Cavaradossi di Kamen Chanev, pur se la voce è giusta per colore e tecnica ed i centri siano robusti. Carlo Guelfi è uno Scarpia che cerca di curare l’accento (ma il vibrato è evidente) e tende a volte a lasciarsi andare al parlato. Nei ruoli di contorno Paolo Battaglia (Angelotti), Giorgio Gatti (sagrestano), Mario Bolognesi (Spoletta) e Antonio Taschini (Sciarrone); a completare il cast Fabio Tinelli (un carceriere) e Marta Pacifici (un pastorello). Il coro del teatro dell’Opera è stato preparato da Roberto Gabbiani, il coro di voci bianche è diretto da Isabella Giorcelli.
Diversi posti vuoti nella gradinata rinnovata, qualche dissenso per la regia, applausi per il cast.