Prosa
DIARIO PERPLESSO DI UN INCERTO

A Trieste l'ultimo capolavoro verdiano

A Trieste l'ultimo capolavoro verdiano

Colgo al volo, gironzolando nel foyer del Teatro Verdi, i perplessi discorsi di alcune mature “babe” (così i triestini DOC chiamano le signore chiaccherone, ma anche le donne tout court).
«No so, no capisso...no el me par gnanca (neanche) Verdi, sto Falstaff, non el me somegia (somiglia) par gnente al Nabucco, al Trovatore, a La traviata» - dice una, e  - «Mah, cossa vustu che te diga...mi sento solo na gran confusion...tutte quele vosi (voci) che canta assieme...anca mi capisso poco» risponde un'altra. Strani commenti, per quelle che hanno tutta l'apparenza di abituali frequentatrici d'opera; e che nondimeno mettono in evidenza come - anche dopo più di centovent'anni dalla sua apparizione, che sorprese tutto il mondo musicale dell'epoca - l'ultimo capolavoro verdiano sia in grado ancora di spiazzare qualcuno. Anche qui sta l'immenso genio di Verdi: dopo tanta e lunga carriera, alla soglia dei settant'anni, non poteva essere certo quello dei primi lavori, neppure lo stesso della piena maturità. Per molti – tra i quali chi scrive - Falstaff appare il vertice assoluto della produzione verdiana, sia dal punto di vista della coerenza drammaturgica, sia per la finezza e la ricchezza musicali; lavoro libero, sperimentale, con un solo protagonista e tanti comprimari, sgombra dei soliti numeri chiusi, pensata come un fluire musicale assolutamente fresco e meraviglioso, econ una grande orchestra trattatta come fosse un ensamble cameristico. Opera per di più di un genio libero da commissioni, da condizionamenti, da esigenze esterne, che componeva solo per il proprio diletto - «scrivendo Falstaff non ho pensato né a teatri, né a cantanti. Ho scritto per piacer mio e per conto mio!» - e spesso con compiaciuta autoironia. Anche per questo non poteva essere eguale – e neppure solo assomigliare - ai lavori precedenti, al massimo avvicinabile a quell'altro capolavoro senile, all'audace modernità cioè di Otello. Opera di sottile godimento intellettuale, per palati e menti fini, verrebbe da dire; ma non è così, basterebbe avvicinarsi con il necessario giudizio per goderla appieno; e pazienza, se invece le nostre babe triestine non l'hanno compresa in fondo.
Per fortuna, nei loro commenti hanno apprezzato i cantanti, ed avevano buona ragione: perchè la compagnia radunata al Verdi per questa gloriosa chiusura di stagione non mostra che pochi, minimi difetti. Cominciamo dal protagonista: Alberto Mastromarino scava bene e domina il personaggio, senza mai andare sopra le righe, affrontandolo con la sua consueta umoralità ed il pieno dominio del palcoscenico. Buon fraseggio generale (però con qualche mezzavoce trascurata, ma eravano a fine recite...), giusto colore alla parola, voce sempre solida e ponderosa Se vogliamo fare i difficili, manca solo al personaggio, ma solo alla fine, quella sottile melanconia vespertina – «siamo alla resa dei conti, vecchio mio» - verrebbe da dire - che musica e le parole stesse suggeriscono.
Vocalmente assai autorevole e ben calibrato nella recitazione il Ford di Domenico Balzani, anche se il monologo delle corna – fulcro e pagina centrale del personaggio, saturo di spunti riflessivi – potrebbe essere risolto dal baritono sardo con qualche sfumatura in più. Eva Mei affronta Mrs. Alice con la giusta dose di pepe, vocalmente ineccepibile per la naturale propensione belcantistica; Meg Page viene ben risolta dalla brava Antonella Colaianni; Mina Yamazaki è una Nannetta fresca e carnosa, con la sola menda di qualche secchezza negli acuti, cosa che sminuisce la luminosità di «Sul fil d'un soffio etesio»; quanto a Giovanna Lanza, propone in scena una Quickly perfetta, arguta e vaporosa, muovendosi senza vacui macchiettismi e senili grullerie nel ripetersi delle reverenze.
Un giovane e ben preparato tenore coreano, Ho-Yoon Chung, è Fenton: il ruolo gli si confà appieno, grazia e freschezza non gli mancano. Giustamente lodevole Cristiano Olivieri nei panni del vecchio Cajus; Gianluca Sorrentino (Bardolfo) e Luciano Leoni (Pistola) completano bene il cast, assolvendo adeguatamente anche il pesante impegno recitativo loro richiesto.
Sul podio sale un altro giovane artista, vale a dire il direttore spagnolo José Miguel Pérez-Sierra che l'anno scorso diresse a Trieste L'occasione fa il ladro di Rossini; e che ora si trova ad affrontare per la prima volta Falstaff. Impegno immane ma assolto senza sbandamenti, attenendosi alla tradizione più consolidata e muovendosi con intelligenza, criterio e sopra tutto con squisita musicalità. Restando agli esempi più famosi, nessun richiamo agli incalzanti ritmi toscanini, preferendo tempi che mettono a loro agio gli interpreti; ma pure nessun indugio verso i mille preziosismi strumentali, procedere tipico, ad esempio, di un Karajan, che potrebbe frenare l'azione. In definitiva: ecco servita sul piatto una narrazione sempre scorrevole, un procedere fantasioso e pulsante, trasparenza nei colori, massima scioltezza nei concertati; in tutto questo, potendo ovviamente avvalersi del pieno appoggio dell'ottima Orchestra del Verdi.
Quanto alla regia di Mariano Baudoin, procede con disinvoltura e sensatezza, creando uno spettacolo colorito, stringente, sempre in perenne movimento. Il regista napoletano, a lungo collaboratore di Roberto De Simone, rispetta in modo preciso il testo e cura al massimo i dettagli di una recitazione che risulta efficacissima e trova molte belle intuizioni nei particolari. Purtroppo si concede anche delle libertà che non sempre convincono, neppure se spiegate nelle lunghe note di regia. Passi per il paggio Robin, il quale come in Shakespeare è il futuro Enrico IV a scuola di vita dal vecchio epicureo (e tale a noi si mostra, manto scettro e corona, alla fine dell'opera, omaggiato dai presenti). Ma perchè sostituire l'oste della Giarrettiera con una vecchia megera (figura della Morte, alla fine); perchè affollare la scena di benandanti, poveri contadini e pastori del Friuli del '500, che nella componente femminile sostituiscono – e lo fanno malissimo - le eteree fate nel parco di Windsor; ed infine perchè poi far morire Falstaff sotto un bianco lenzuolo, immobile salma sullo sfondo del rutilare vorticoso di «Tutto nel mondo è burla»? Inutili assurdità, che minano uno spettacolo che potrebbe essere altrimenti esemplare. In compenso, nessuna critica ed anzi molte lodi alle deliziose scenografie di Nicola Rubertelli, gradevoli invenzioni poste sotto un cielo di candide lenzuola che volutamente riecheggiano le pareti del londinese Globe Theatre; e lo stesso ai sapidi costumi di Zaira de Vincentiis, che miscelano con nonchalance reminescenze elisabettiane ed ottocentesche.

Per finire un grazie, un meritatissimo grazie al sovraintendente Claudio Orazi, che in un periodo di lacrime e sangue ha salvato l'onore (ed il pubblico) del massimo teatro triestino. Lascia il posto ed un'eredità difficile a Stefano Pace... a lui il nostro «in bocca al lupo!».

Visto il 05-07-2015