Il Teatro dell'Opera di Roma ha inaugurato la stagione 2016-17 con un'opera monumentale, Tristan und Isolde di Richard Wagner, in un nuovo allestimento coprodotto con l'Opera Nazionale di Amsterdam e il Teatro degli Champs-Elysées di Parigi. Monumentale e difficile da rappresentare in quanto Tristan und Isolde è un’opera anti-figurativa, un flusso di processi interiori, una storia mentale, e in questa direzione va la produzione romana: il drammaturgo Willem Bruls, il regista Pierre Audi e il direttore Daniele Gatti fanno riferimento, nei loro interventi all'interno del sontuoso e ricchissimo programma di sala che riporta la bella traduzione di Franco Serpa, alla filosofia di Arthur Schopenauer e soprattutto al concetto di desiderio inappagato. Dunque l'impossibilità di un appagamento in amore e il desiderio infinito che tale impossibilità procura sono alla base della produzione che ha al centro il dolore della vita in un impossibile amare.
La scenografia di Christof Hetzer propone tre soluzioni diverse per i tre atti ma all'interno di un unico contesto: lo sfondo leggermente concavo che evoca il mare e il cielo e che si tinge di tre colori principali, blu nel primo atto, verde nel secondo e grigio nel terzo. Nel primo atto quattro grandi pannelli suggeriscono la nave, quattro elementi metallici verticali arrugginiti semoventi che si scompongono e si ricompongono a formare spazi o soltanto a creare prospettive. Nel secondo atto dal pavimento escono grandi zanne biancastre, ossa arcaiche pietrificate a simboleggiare un amore impossibile nella vita umana. Nel terzo campeggia al centro una struttura quadrangolare di scuri vetri che nel finale si svuota a diventare soltanto una specie di arco. I costumi, sempre di Christof Hetzel, rimandano a un medioevo idealizzato nei primi due atti, mentre sono contemporanei nel terzo: la ragione non è chiarissima e potrebbe essere la eternità di una vicenda fuori da un tempo concreto e situata in un tempo ideale. Fondamentali le luci di Jean Kalman nell'economia dello spettacolo, al punto da poter dire che, senza le luci, il risultato non sarebbe stato altrettanto straordinario: ombre e luci che raccontano la difficoltà di amare e di vivere dei protagonisti. I video di Anna Bertsch si limitano a proiezioni di linee biancastre pulsanti, orizzontali e verticali.
Pierre Audi riesce, in una regia essenziale e rarefatta, a suggerire i sentimenti con una sorta di significativa immobilità che non è affatto staticità ma è un limitare i gesti e i movimenti all'essenziale per il racconto e il sostegno alla parola. Anche nell’estasi amorosa del secondo atto, quando la musica e il canto si fanno sempre più incandescenti, i loro movimenti sono misurati ma efficaci a trasmettere tensione e tristezza e a mettere a nudo un uomo e una donna vulnerabili che vivono in un mondo fuori dal tempo e dallo spazio. Il risultato è di grande forza visiva, soprattutto il finale: tutti sono morti, compresa Isolde che canta il Liebestod in controluce, come fosse solo ombra, una donna smaterializzata. Una soluzione che rende credibile il resto dell'opera e che si pone fra due domande estreme: Tristan e Isolde sono due esseri umani vulnerabili schiacciati da un mondo ostile che non concede loro di appagare i desideri, oppure sono una coppia chiusa nell'utopia di un amore eterno e inestinguibile che la porta a essere sacrificata?
Lo spettacolo è memorabile anche per la perfetta fusione di idea registica, realizzazione scenotecnica e direzione musicale. L’interpretazione antieroica dà pieno risalto alla musica che ritrova la sua funzione privilegiata di preparare, commentare o amplificare quegli sviluppi emozionali che, non venendo enfatizzati a livello gestuale, ritrovano la loro originaria pregnanza. Daniele Gatti ha dichiarato di voler entrare nell'anima dei personaggi, in quanto Tristan und Isolde è “un'opera profondamente umana, che mette a nudo il dolore delle nostre vite”. Il Maestro riesce a ottenere da un'orchestra in stato di grazia suoni ora lunari e trasparenti (come nel preludio al secondo atto), ora pieni e roboanti in una mirabile fusione di peso con le voci. L'attenzione dello spettatore è mantenuta sempre alta grazie a una esecuzione intensa e pulsante, di grande efficacia drammaturgica (e questo è straordinario che accada proprio in un'opera in cui non esiste davvero un racconto), come nel prologo al terzo atto affidato ai legni vibranti che esprimono quel desiderio che si autogenera attimo dopo attimo, anelito dell'attesa di un amore mai compiutamente vissuto ma unione di due anime che mai più si lasceranno, pagina musicale che trova compimento poco dopo nel Liebestod.
Vera protagonista è Isolde, una donna volitiva che agisce senza paura, dominatrice della scena: Rachel Nicholls ha voce chiara e potente che non fatica a passare l'orchestra restando sempre velatamente sensuale ed è capace di ottenere un canto morbido e sfumato e di reggere le lunghe arcate vocali senza incertezza. Per un'indisposizione di Andreas Schager, il ruolo di Tristan è stato sostenuto da Robert Dean Smith, uno dei più significativi interpreti wagneriani: tuttora, nonostante la lunga e impegnativa carriera, la voce regge il canto spiegato e dunque il suo Tristan convince per un fraseggio sfumato, dolce e doloroso, adatto a esprimere un lirismo sofferto (il tenore trova la sua migliore cifra espressiva nel terzo atto, dove il dolore per le ferite e per gli errori del passato e la brama dell'attesa sono perfettamente rese). I due confidenti sono gli anelli di collegamento fra i protagonisti e la vita reale e rivelano un forte rapporto emotivo con i due padroni: più amica che nutrice la sensibile Brangäne di Michelle Breedt, voce solida e profonda per il Kurwenal del bravo Brett Polegato che nel terzo atto scolpisce un personaggio straziato e tormentato che amplifica il dolore di Tristan. Andreas Horl si impone anche fisicamente: un altissimo Marke dalla voce profonda, molto bravo nel suo lungo monologo del terz'atto che suona come un atto di accusa e, al tempo stesso, di autocompatimento, quando sembra prendere su di sé le colpe di tutti e si accascia al suolo. Gobbo e piegato su una stampella, è bravo il Melot di Andrew Rees, sgradevole ed egoista, che rappresenta l’uomo senza scrupoli che antepone il favore politico al mondo degli affetti. A completare il cast il Marinaio di Rainer Trost, il Pastore di Gregory Bonfatti e il Pilota di Gianfranco Montresor. Il coro, limitato alla sezione maschile, è stato perfettamente preparato da Roberto Gabbiani.