Milano, teatro alla Scala, “Tristan und Isolde” di Richard Wagner
L'AMORE E' UN DESIDERIO MAI APPAGATO
La vicenda di Tristano e Isotta è la tragica consapevolezza che il desiderio amoroso, slegato dalle necessità del mondo reale, si appaga soltanto nella morte, un'opera sul desiderio, sulla sua natura illusoria e ingannevole: si crede che conduca a una vita più piena, mentre in realtà allontana dalla vita, costringendo sempre più in quel regno della notte in cui c'è solo dissoluzione, secondo il pessimismo cosmico del desiderio inappagato. Infatti non si può resistere alla sensazione sconvolgente di vivere per sempre nel ricordo e nella mancanza della persona amata, con il peso insostenibile di quell'assenza.
“Tristan und Isolde”, da trent'anni assente dal palcoscenico scaligero, è tornata nell’attesa inaugurazione di stagione con la direzione di Daniel Barenboim, maestro che ha un rapporto privilegiato con quest’opera. Ed è per il potere incantatorio esercitato dalla musica che il lungo spettacolo scorre veloce, coinvolge, emoziona.
Il Tristano di Barenboim è intriso di ineluttabilità e pessimismo, già nel preludio si ravvisano lunghe pause che diventano silenzi strazianti, silenzi che, senza allentare la tensione, fanno presagire l’inevitabile tragedia di una storia di amore e morte. Una narrazione intensa ed espressiva permeata di dolore e di ineluttabilità, in cui vengono evidenziati in modo toccante i temi della solitudine, dell’angoscia, del desiderio. Temi conduttori che organizzano il discorso musicale in modo psicologico, non “mattoni” che creano un'architettura come nel Ring, ma “fili” che si intrecciano in una tessitura, si assomigliano, si fondono uno nell'altro, proprio come nell'amore, dove gioia e sofferenza, desiderio e annullamento si confondono.
L’orchestra disegna una fluida onda sonora, tesa e morbida al tempo stesso, dai suoni bellissimi e autenticamente wagneriani, mai fini a se stessi, sempre inseriti nell'ordito orchestrale e nel contesto narrativo. Barenboim asseconda alla perfezione i cantanti, il fiume orchestrale s’insinua nel canto, si ritrae, senza mai perdere in tensione emotiva, sostenendo le voci per non farle forzare troppo, respirando con loro.
La lettura di Patrice Chéreau è analitica, dalla gestualità accurata ed efficace nel sottolineare l’identità fra parola e musica, apparentemente priva di autentica forza innovativa, anche a paragone del suo leggendario Ring di Bayreuth. Ma “datata” solo in apparenza, in quanto priva di tecnologie ed effetti speciali, a cui oggi ci siamo abituati: questo è un teatro in cui si punta sul lavoro con l'attore, un grande teatro che ha forza comunicativa e di riflessione straordinarie e che trova nuovi spazi per l'interpretazione.
La regia tralascia aspetti descrittivi e misteriosi di derivazione romantica (assecondata dalle scene colossali, scarne e astratte di Richard Peduzzi, di cui dirò) per concentrarsi sull’interiorizzazione del dramma, reso ancora più evidente dall’uso di una scena chiusa, un mondo asfittico senza mare e orizzonte in cui, fra mura di mattoni (reminiscenze di altezze medievali o di fatiscenze post-industriali) una chiatta arrugginita avanza lentamente fra la nebbia; la stessa bruma accompagna l’inizio degli altri due atti, una nebbia dell’anima da cui affiorano i personaggi e i loro fantasmi interiori.
Chéreau ha presente lo sterminato materiale a cui Wagner attinge, dalla letteratura alla filosofia, da Novalis a Schopenhauer, e lo traduce in istanze visive e in movimenti densi di significato, dotti ma immediatamente comunicativi, mai criptici nella loro essenzialità simbolica. Una regia che elimina ogni elementi fiabesco e parla all'uomo di oggi, all'uomo di sempre.
Chéreau riempie la scena di interlocutori muti, marinai, cavalieri e scudieri che fanno da sfondo all’incontro/scontro dei due protagonisti. Il continuo movimento dei marinai è, nel primo atto, in sintonia con le accelerazioni impresse dalla musica, mentre nel terzo i movimenti lenti e sospesi dei fedeli scudieri diventano eloquenti dell’attesa e della veglia funebre, una sorta di coro da tragedia greca che commenta, esteriorizzandolo, rendendolo visivo e concreto, il dolore e la morte, preannunciata da un ampio varco ogivale da cui alla fine uscirà di scena Isotta, incedendo incerta come alla deriva, per annullarsi in un Liebestod umanissimo e senza speranza. L'unico dubbio è sullo scorrere mistico del sangue sul volto e sulle mani di Isotta.
La scena di Richard Peduzzi, direttore dell'Accademia di Francia a Roma (nel giardino di villa Medici è stato preso il suo ritratto fotografico inserito nel programma di sala), è improntata a criteri non necessariamente naturalistici, più a delineare uno spazio della memoria, un luogo interiore, un luogo-non luogo dell'anima, ideale per un flusso di processi interiori. All'inizio un altissimo muro, barriera che esclude, impermeabile, elemento con cui bisogna misurarsi in tutti gli atti, una superficie butterata ed irregolare insuperabile, contro cui si può solo sbattere. Ma in cui si apre un enorme orifizio attraverso cui penetra un battello deserto, un'imbarcazione che, nella nebbia fitta, avanza silenziosissima verso la platea. Una barca arrugginita, relitto da archeologia industriale o arca di Noè, dentro e fuori dal tempo (Holbein). Una chiatta dal fondo piatto ma dall'altra cabina, come una casa, ma di lamiere ondulate arrugginite, corrosa dal tempo e dall'uomo. Dalla cabina di comando esce Tristano, avanzando verso Isotta: che fare del tempo quando si ama fino a morire? L'unica prospettiva è estendere il presente perchè prevalga su un passato doloroso e su un futuro impossibile, perchè l'eternità può essere solo un'attesa. E il colmare quell'attesa. Finito e infinito. Aperto e chiuso. Quando la barca approda alla riva di Cornovaglia, si pone trasversale rispetto allo sguardo degli spettatori e la grande apertura viene chiusa da un portone metallico dietro cui si intravedono luci al neon.
Tristano e Isotta sono due persone molto sole e che si trovano nella situazione di dover far rotta insieme su quel battello. Ma non c'è il cupo fatalismo da tradizione; sembrano piuttosto due persone indifese. Lo stesso filtro appare come una metafora poetica della passione, il pretesto per la liberazione di sentimenti inconsci. Un filtro d'amore che è acqua trasparente, che libera pulsioni sopite: i due prima si guardano da lontano, poi si avvicinano con sguardi, poi lui si inginocchia e bacia il lembo della veste di lei. Alla fine si buttano uno sul corpo dell'altro con una passione istintiva ed irrefrenabile, tanto che debbono intervenire i marinai a separarli, perchè la nave è arrivata al porto: li dividono, li vestono, li fanno sbarcare, Marke pone un braccio sulle spalle di lei, che appare straniata. Il desiderio sessuale rapidissimo monta in un istante e presto si spegne con folgorante rapidità, trasformandosi nel secondo atto in una riflessione, nel racconto di due esperienze di vita. Un riconoscersi che è totale. E per questo definitivo.
Pochi elementi differenziano i vari atti, colpisce come Chèreau sia in grado di utilizzarli per un uso profondamente narrativo del testo wagneriano, gesti, azioni, comportamenti, espressioni che mostrano il procedere del racconto, del ragionamento, delle istanze dialettiche e filosofiche. Un realismo che stravolge la convenzionale staticità e mostra la forza comunicativa ed emozionale della parola wagneriana. Nel secondo atto dominano i chiaroscuri (luci di Bertrand Couderc), non ci sono veri elementi vegetali ma solo qualche cipresso, verticalità verde scuro (Böcklin e le sue isole dei morti, la Grecia perduta che Winckelmann aveva imperiosamente cercato, contribuendo a creare quel superamento dell'illuminismo di cui Tristan und Isolde rappresenta il compimento). Nel terzo atto il muro si spalanca sull'eternità, sul buio, sul nulla, su un nero totale ed assorbente che attira e che travolge. Per sempre. Un nero verso cui si avvia Isotta, prima di accasciarsi a terra.
Waltraud Meier unisce canto e recitazione, come Wagner prescriveva; è una Isolde carismatica, verso la quale inevitabilmente convergono gli occhi degli spettatori, ammaliati dalla forte presenza e dalla sensibilità, capace di tradurre con le mani, i gesti nervosi, lo sguardo e il canto ricco di accenti e sfumature le passioni contraddittorie che la estenuano. Femminile fragilità e dolcezza da amor cortese, regalità isterica percorsa da lampi di sarcasmo e disprezzo, una sensualità autentica e febbrile, ma non esibita: una Isotta di riferimento, in piena sintonia con la musica, nonostante la voce un poco affaticata che tradisce sforzi nell'acuto e che arriva stanca alle pagine finali.
Anche Ian Storey fonde canto e recitazione, poiché ha il senso della parola e buone capacità attoriali, oltre che una degna presenza scenica (l'età è esibita, come anche la Meier), ma la voce, opaca e povera di colori, manca dell’estensione, dell'espressività e del volume necessari alla parte di Tristano. Debole nel duetto e nell’estasi amorosa, risulta più convincente nel terzo atto, nei toni intimi e nella rappresentazione del dolore: Tristano non teme la morte senza Isotta, piuttosto teme la vita eterna senza di lei.
Michelle De Young è una Brangäne partecipe e materna di solida vocalità, una figura vicina alle nutrici delle tragedie greche, su tutte quella di Medea, per la quale “le cose dei padroni che vanno male sono sciagure per i buoni servi e stringono il cuore”. Assiste al lungo duetto del secondo atto appoggiata contro il muro, trascinandosi addolorata da una parte all'altra, stringendo in mano il manto rosso di Isotta (i costumi sono di Moidele Bickel).
In ottima forma Matti Salminen, un Marke profondo, autorevole e dolente, che unisce alla forte presenza teatrale una voce possente di basso che riesce a ridurre a un sussurro emozionante. Il suo lungo monologo è un atto di accusa e, al tempo stesso, di autocompatimento, tra la collera e la calma di chi sa che è già tutto compiuto, comunque un momento di grande dolore, sottolineato dai legni piangenti.
Espressivo il fedele, ottimista e commosso Kurwenal di Gerd Grochowski; bravo il Melot subalterno di Will Hartmann (atteso conte Danilo ne “La vedova allegra” di Pier Luigi Pizzi che chiuderà la stagione scaligera). Completano adeguatamente il cast il marinaio di Alfredo Nigro, il pastore di Ryland Davies e il pilota di Ernesto Panariello.
Ottima la prova dell'orchestra, dopo le tensioni per gli scioperi, sia nell'insieme che nelle parti solistiche, magnifici i legni, struggente il corno inglese. Bene anche il coro, preparato da Bruno Casoni.
Nella recita del 20 dicembre un pubblico attento e coinvolto ha tributato lunghi applausi a tutti, rimandando la consueta corsa ai cappotti, per concedere la piena ovazione al direttore e partecipare al trionfo.
La recita del 2 gennaio era esaurita, ma si notavano dei “buchi” dovuti evidentemente a defezioni tra gli abbonati non ancora rientrati a Milano. Lunghi applausi per tutti alla fine di ogni atto e al termine della recita, in particolare per Barenboim, osannato. Che ha diretto quattro ore di musica tutta a memoria, senza spartito davanti se non una salvietta bianca usata di tanto in tanto per asciugarsi il viso.
Visto a Milano, teatro alla Scala, il 20 dicembre 2007 (Ilaria Bellini) e il 02 gennaio 2008 (Francesco Rapaccioni)
FRANCESCO RAPACCIONI e ILARIA BELLINI
Visto il
al
Teatro Alla Scala
di Milano
(MI)