Tristan und Isolde, che inaugura la stagione 2020 del Teatro Comunale di Bologna, vede la luce dopo ben 15 anni dalla celebre frase di Wagner.
«Ho sbozzato nella testa un Tristano e Isotta: un concetto musicale della massima semplicità, ma puro sangue», scriveva Wagner alla fine del 1854. Solo quindici anni dopo Tristan und Isolde, che inaugura la stagione 2020 del Teatro Comunale di Bologna, vedeva però finalmente la luce: opera sconvolgente, apocalittica, rivoluzionaria, anticipatrice.
Basti pensare al mesto lamento del pastore di Kareol, stranito a solo affidato al corno inglese di preveggente modernità. L'opera è oggi affidata a Juraj Valčuha, che l'anno scorso diresse qui (ed assai bene) Salome. Copioso talento musicale, che porge da una parte una direzione molto accurata, in costruttivo dialogo con l'Orchestra del TCBO e con il palcoscenico; dall'altra, una netta percezione di profonda, convinta intensità lirica. Perché il maestro slovacco persegue una visione appassionata, stimolante, dalla possente teatralità e dalle impellenti pulsioni emotive. Certi abbandoni lirici toccano apici di languida esaltazione; e solo la sfumatura delle dinamiche, ci pare, potrebbe essere più screziata. Comunque sia, le calorose ovazioni del pubblico felsineo l'hanno assai ben ripagato.
Interpreti quasi tutti stranieri, naturalmente
Stefan Vinke, poderoso baritenore che ben conosciamo, non manca d'infondere calore ed calibrata enfasi a ciò che canta, senza sbavature di fraseggio, senza mai eccedere nello slancio, senza essere mai aggressivo. Sa bene come esprimere la forza interiore dei suoi personaggi, anche quando affronta per noi l'impervio ruolo dell'introverso e piagato Tristan.
Il soprano svedese Ann Petersen domina accortamente una voce d'acciaio brunito, ed omogenea nell'intera gamma. Emerge nella sua Isolde la necessaria varietà di colori e di suoni; gli acuti sono limpidi e penetranti come lame, la voce svetta sulla massa orchestrale. Il fiato non va mai in riserva, fattore indispensabile in questa estesa e tremenda parte. Certo, una maggiore dose di poesia e tenerezza nel Liebestod non guasterebbero; però il carattere dell'interprete è quello che è, più da Brunhild che da Isolde. Albert Dohmen è un Marke d'araldica signorilità, mediata dalla voce scura, possente ed acutamente gestita. Nelle vesti di Brangäne, Ekaterina Gubanova si mostra un po' distaccata, però fronteggia bene la sua signora nel non facile “Wehe! Ache Wehe!” che sigla il primo atto; Martin Gantner è un nobile, ardente, solido Kurwenal; Tommaso Caramia e Klodjan Kaçani sanno conferire buon risalto al ruvido Melot ed al melanconico marinaio.
Un allestimento algido e bizzarro
L'allestimento ideato da Ralf Pleger e Alexander Polzin ha visto la luce a Bruxelles, lo scorso maggio. Pleger immagina che dopo aver bevuto un filtro lisergico, Tristan e Isolde approdino ad un diverso, superiore livello di coscienza. Questa visione 'psichedelica' ci può stare, per carità; ma non è che si scorga poi tanto in scena. Di drammaturgia vera e propria – almeno come la intendiamo noi – ne ravvisiamo pochina; semmai, ci viene ammannita un'algida microgestualità che scopiazza il teatro Nô.
Tocca quindi all'eclettica, immaginifica fantasia delle scenografie fornirci qualche motivo d'attrazione: il primo atto vede scendere dall'altro una densa foresta di stalattiti, dietro sta un'enorme specchio che riflette i personaggi e la sala. Il secondo atto un immane, bianco intrico di radici tra le quali si aggirano inquieti corpi nudi, e nel quale gli amanti trovano rifugio. Il terzo, offre un vuoto gelido ed asettico, riquadrato di luci al neon che virano dal bianco al rosso del finale, dal cui fondale emergono mobili tubi luminosi: effetto assicurato. I costumi di Wojciech Dziedzic assecondano questa visione straniata e iperconcettualistica del capolavoro wagneriano. Eloquenti le coreografie di Fernando Melo.