Nell'avviare la destrutturazione del sistema tonale sta il portato storico di Tristan und Isolde di Wagner, tre ore abbondanti di musica che proclamano il dissolvimento delle convenzioni dell'opera tradizionale. Archiviati i pezzi chiusi, i concertati, le solite formule teatrali, sostituiti per la prima volta da un sconvolgente fluire di melodie infinite e da una inedita libertà armonica. “Ho sbozzato nella mia testa un concetto musicale della massima semplicità, ma di puro sangue”, scrisse l'autore a Liszt nel dicembre 1854; e in queste parole sta l'essenza di un stupefacente capolavoro che è insieme il limite d'arrivo dell'opera romantica, e il punto di partenza della musica moderna.
La musica del futuro
Due compagnie al lavoro; e tenuto conto che di grandi (e veri) cantanti wagneriani s'è persa la traccia, è andata anche bene. Quella sentita vede il Tristan atletico e rifinito di Hans-Georg Wimmer, nel quale l'intelligenza interpretativa fa da contrappeso ad una attitudine vocale non proprio ideale; e la vitalistica e giovanilissima Isolde di Ana Petricevic, la cui prestazione appare indebolita però da qualche asprezza negli acuti. Accanto il solido ed intenso Marke del bielorusso Alexey Birkus; l'ottimo Kurwenal di Nicolò Ceriani; il ferrigno Melot di Motoharu Takei; la Brengäne di Daniela Denschlag, interprete efficiente e verosimile. Ed ancora Andrea Schifaudo (Marinaio), Dax Velenich (Pastore), Hitoshi Fjiyama (Timoniere) Christopher Franklin dirige con indubbia cura, ma senza vera epicità.
Lui è un po' tetragono e molto cerebrale, così che l'arco narrativo patisce una certa debolezza; non c'è molto gioco di chiaroscuri e quanto a vibrazioni - fatte d'umanità, di vampe di calore, di sensuale voluttà – se ne avvertono poche. L'Orchestra del Verdi, da parte sua, dà soddisfacente rendimento pur in un repertorio a lei pressoché incognito; e giusta è l'incisività del Coro. L'altro cast vede in scena Bryan Register, Allison Oakes, Susanne Resmark.
Una regia poco avvertibile
La drammaturgia di Tristan è un problema per i registi, perché d'azione ce n'è pochissima e quindi non è agevole darle concretezza visiva. E' un opera statica come pochissime altre, nella quale tutto si gioca su minimi movimenti e su un continuo rimando di sguardi, ognuno sottolineato da un sua frase musicale, da un particolare motivo, da una certa sottolineatura timbrica. In questo, la regia di Guglielmo Ferro non mi pare sia andata oltre le consuetudini, offrendo una gestualità alquanto convenzionale inserita in una summa di spettacoli già visti. Regia di per sé funzionale, serrata nel racconto, e ben fusa con la musica; ma non molto di più. I sobri costumi di Virginia Cornabuci sono reinterpretazione moderna di un Medioevo fantastico; raffinate le spoglie ma evocative scenografie di Pier Paolo Bisleri.