Dopo sette anni di assenza, Turandot torna al San Carlo nel fortunato allestimento nato per il Petruzzelli di Bari nel 2009 e già riproposto nel 2013 all’Opera di Roma. La regia di Roberto De Simone (ripresa da Mariano Bauduin), l’impianto scenografico di Nicola Rubertelli e gli abiti di Odette Nicoletti lavorano in perfetta sinergia in una lettura che trasforma il capolavoro estremo e incompiuto di Puccini in una sorta di sacra rappresentazione, in un ‘mistero’ nel quale gesti e posture sono sottoposti a una stilizzazione quasi liturgica. L’idea centrale di De Simone è che la vicenda rappresentata non sia semplicemente la storia di una principessa crudele che seduce e uccide i suoi pretendenti. La spietatezza di Turandot, secondo il drammaturgo partenopeo, affonda le proprie radici e trova giustificazione nell’oltraggio perpetrato ai danni dell’antenata Lo-u-Ling, violata nel corpo e nella dignità dal nemico straniero. Turandot è pervasa, o addirittura invasa, dallo spirito dell’ava: il suo destino è segnato dall’antica offesa, il suo comportamento è determinato dalla necessità di vendicare la purezza calpestata, il suo cuore è intrappolato dal gelo dell’odio verso l’uomo visto come entità ostile e principio corruttore. La messinscena ribadisce in più frangenti questa interpretazione. Nel secondo atto, ad esempio, mentre la principessa rievoca la triste storia di Lo-u-Ling, sul palco una fanciulla biancovestita viene inseguita, raggiunta e trafitta da agili guerrieri. Un’invenzione ancora più esplicita governa la conclusione dell’opera: il corpo di Liù viene deposto nella stessa tomba che da due secoli accoglie le spoglie di Lo-u-Ling, e lo spirito di quest’ultima, finalmente liberato dal sacrificio della schiava, raggiunge Turandot per scioglierla dal vincolo luttuoso che la opprime.
Per incorniciare la fiaba gozziana, Rubertelli immagina scene severe e monumentali; in particolare, lo sviluppo verticale della gradinata, che domina le scene di massa, genera una speciale solennità, improntata per lo più alla staticità ieratica ma percorsa sovente da bagliori e riflessi che sembrano premonizioni e minacce. Suggestive le scelte di Odette Nicoletti, che per i costumi neutri e cupi di coristi e comparse si ispira ai guerrieri di terracotta dell’imperatore Qin ritrovati a Xi’an, mentre dona il giusto risalto ai protagonisti grazie all’impiego di colori nitidi e decisi. Interessante risulta inoltre l’uso delle maschere, chiamate a svolgere funzioni simboliche e allusive che sottolineano i sovrasensi dell’azione.
Dal podio Juraj Valčuha, direttore principale dell’Orchestra sinfonica nazionale della RAI, non esita ad accentuare e valorizzare i tratti schiettamente novecenteschi della partitura pucciniana, e anzi sottolinea con forza e coerenza le asperità, le inquietudini e i clangori che convivono con i momenti di più disteso e rassicurate lirismo. Sotto la sua guida, l’orchestra del teatro sfodera sonorità possenti e timbri taglienti, alternati con sapienza ad atmosfere intime e soffuse; buona anche la prova del coro diretto da Marco Faelli. Tra i protagonisti spicca Carmen Giannattasio, notevolissima per timbro e per volume, capace di conferire una speciale forza al personaggio di Liù senza mai rinunciare al controllo e alla compostezza. La Turandot di Elena Pankratova risulta un po’ indecisa e come disallineata rispetto all’idea registica di De Simone, sicché il carattere algido e inscalfibile della protagonista risulta spesso appannato sia vocalmente, sia dal punto di vista espressivo. Molto discontinua la prova dell’uruguayano Carlo Ventre, che nei panni di Calaf incassa consensi tiepidi e generici. Precisi e affiatati appaiono Enrico Marrucci, Cristiano Olivieri e Massimiliano Chiarolla (Ping, Pang e Pong). Completano il cast Bruno Lazzaretti (Altoum), Riccardo Zanellato (Timur), Ventseslav Anastasov (un mandarino), Sergio Voccia (il principe di Persia), Simone D’Acunto (il boia). Nell’insieme lo spettacolo viene accolto con entusiasmo dal numeroso pubblico presente in sala, che non lesina gli applausi.