La stagione 2012-13 dell'Opera di Roma si chiude con l'allestimento del teatro Petruzzelli della Turandot di Roberto De Simone, rappresentata nella partitura pucciniana fino al compianto funebre di Liù: già a Bari e nella ripresa del Comunale di Bologna del gennaio 2012 non si era riusciti a superare i problemi dei diritti d'autore per poter inserire il finale appositamente scritto da De Simone. Inizialmente era stato previsto un allestimento proveniente dagli Stati Uniti (San Francisco e Chicago) con la regia di Garnett Bruce.
La scena di Nicola Rubertelli è fissa e verticale, una ripida scalinata che conduce a un palazzo inerpicato sopra una collina. I costumi di Odette Nicoletti sottolineano le intenzioni fiabesche del regista, calcando su parrucche, trucco ed esagerazioni negli abiti con gusto e ricerca archeologica per avvicinare una Cina storica e documentata. Connotano lo spettacolo i coristi nelle sembianze dell'esercito di terracotta di Xian, implotonati come nelle fosse (a un certo punto un'immagine sul velatino ne mostra una) e maschere facciali a completare l'effetto.
La regia di Roberto De Simone, ripresa da Mariano Bauduin, rappresenta una “favola di enigmi e riti” intrisa di antica ritualità ma forse troppo insiste sul rapporto tra Turandot e l'ava defunta (vista come una bambina innocente e persino stuprata), fatto supposto alla base del comportamento distaccato della principessa, al punto che nel finale domina al centro della scena la tomba dell'ava, dove viene deposta Liù: Turandot e Calaf si riuniscono davanti alla tomba, come se la morte di Liù avesse compensato quella dell'ava, il loro amore trionfa anche in assenza di baci e abbracci ma solo con mani che sfiorano un giglio bianco.
C'è poco e lento movimento, volutamente. E quel poco ha un senso di rituale, aumentato dai sei mimi, perfetti. Dunque uno spettacolo pieno di fascino arcaico, dove il quotidiano è dominato da riti e rituali, il mistero soverchia la certezza, crudeltà e paura vengono usati per gestire il popolo e l'unico riscatto possibile è affidato a prove insuperabili.
Pinchas Steinberg ha offerto una direzione sinfonica avvincente con grande attenzione a una partitura fatta di inesauribili dettagli diversissimi tra loro che vanno evidenziati mantenendo però coerenza nell'insieme affinché sia desta e costantemente all'erta l'attenzione dello spettatore in un allestimento ieratico e poco mosso. Il Maestro ha cesellato i momenti intimi connotandoli di particolare lirismo e, al tempo stesso, ha impresso a quelli potenti una forza controllata. Se tale direzione pare (in linea di principio) poco conciliante con il canto, ciò non si è verificato in quanto il direttore è stato attento alla presenza e al volume delle voci.
Elena Popovskaya ha voce potente e registro centrale pieno, nonostante qualche asprezza in acuto ha ben risolto il ruolo del titolo. Marcello Giordani ha voce morbida e attenta alle sfumature: se gli acuti sono stati in un paio di occasioni al limite del fuoco (chiusura del secondo atto e Nessun dorma), il resto della prestazione convince appieno. La Liù di Maija Kovalevska è poco innocente ma ha voce piena e sonora seppure poco attenta ai piano sfumati. Bene amalgamati e scenicamente credibili Ping (Simone Del Savio), Pong (Saverio Fiore) e Pang (Gregory Bonfatti). Un monumento come Chris Merritt affronta il ruolo di Altoum. Molto bravo Roberto Tagliavini: il suo Timur è adeguato vocalmente e partecipa attivamente al buon risultato del cast ponendosi come il migliore della serata. Con loro il mandarino di Gianfranco Montresor, il principino di Luca Battagello e il coro ben preparato da Roberto Gabbiani, insieme al coro di voci bianche diretto da Josè Maria Sciutto.
Pubblico numeroso, applausi convinti. La campagna abbonamenti per la nuova stagione è in pieno svolgimento e questo successo pare beneaugurale.