Turandot è opera legata intimamente alla Scala, dove ha debuttato in prima assoluta. Torna ora con un nuovo allestimento, affidato a un regista dalla solida esperienza teatrale e multimediale.
Giorgio Barberio Corsetti immagina la rappresentazione come un sogno di Calaf, il quale dorme steso a terra all'apertura del sipario e, nel finale, si toglie il cappotto, lo appallottola a mo' di cuscino e si allunga, riaddormentandosi. Il regista fa un uso sapiente dei protagonisti, dei coristi e delle comparse e si mantiene nei ranghi della tradizione ma con momenti assai interessanti che concentrano l'attenzione dello spettatore sui particolari e sui dettagli del libretto, proponendo idee non scontate e non banali.
L'uso dei video è una cifra stilistica degli allestimenti di Barberio Corsetti, a cominciare da quel Faust in cui attraversava la scena sospeso a cavalcioni di un televisore che trasmetteva immagini di fiamme rosseggianti. Qui nel primo atto il volto di Turandot si materializza per più volte nel cielo sullo sfondo, a sostituire una luna piena, grande e bianca, metafora della stessa principessa, lontana, irraggiungibile, glaciale, pallida: Calaf si innamora di lei ascoltando le parole del popolo di Pechino e vedendo un volto lunare impassibile oppure addormentato. Nel secondo atto la tecnica è la stessa dell'indimenticabile Pietra del paragone del Regio di Parma: in video scorrono immagini che sono la sovrapposizione delle riprese di due telecamere, una per lo sfondo e una per i personaggi. Così in video vediamo Ping, Pong e Pang che lentamente navigano su un paesaggio tradizionale della Cina rurale oppure in un frondoso angolo di giardino.
Sicuramente essenziale per la riuscita dello spettacolo l'apporto dei costumi sfarzosi e delle scene monumentali di Giorgio Barberio Corsetti e Cristian Taraborrelli. Pechino è ricreata con case porticate a due piani di legno che salgono dal basso a isolare un vicolo attraversato da un ponticello tradizionale. Sul cielo celeste dello sfondo passano nuvole nerissime, poi la luna enorme e bianca appare in un cielo ormai buio. Alcuni funamboli scendono con corde dall'alto, compiendo evoluzioni: in Cina il legame tra terra e cielo è simbolizzato dall'imperatore. All'arte circense rimandano i tre replicanti che accompagnano Ping, Pong e Pang, saltimbanchi che partecipano attivamente all'azione vestiti dei colori dei tre ministri: arancione, giallo e rosso (soprattutto a loro è affidata la coreografia di Ricky Sim). Lo stesso boia, che arrota la cote sul tetto, è un acrobata calato dall'alto. L'evocazione degli spasimanti della principessa uccisi è affidata ad abiti bianchi che volano in cielo come fantasmi, privi di corporeità. Poetica l'evocazione da parte del coro del volo di cicogne, reso con uccelli finti attaccati a bastoni ondeggianti e il movimento delle braccia dei coristi che avanzano verso il proscenio.
Il secondo atto si apre con luci (di Fabrice Kebour) rosso sangue e con la proiezione fumettistica di teste che saltano via da colli zampillanti fontane di sangue. Poi dal basso sale la reggia, sfolgorante di oro e rosso lacca: sopra lo spazio dell'imperatore sul trono, sotto l'interno che custodisce Turandot, vegliata da sei guerriere-guardiane con lunghe lance e acconciature architettoniche. Il tempo degli enigmi è originale ed efficace: Turandot è vegliata dalle sei guardiane che la proteggono in cerchio; la principessa, isolata e irraggiungibile, si sente sicura e punta l'indice minaccioso contro Calaf. Ma, alla soluzione del terzo enigma, le guardiane la lasciano sola e si schierano di spalle sul fondo. Turandot si guarda intorno smarrita, impaurita, aggredibile, privata della security. Quando Calaf propone il suo enigma, le guardiane si riavvicinano alla principessa: c'è una nuova possibilità di proteggerla, di isolarla.
Nel terzo atto il duetto-confronto tra i protagonisti è davanti a una parete che cancella il resto, in uno spazio ristretto dove Turandot si difende sguainando un pugnale, prima di un finale completamente bianco, nei costumi e nelle luci. Prima che il sogno finisca, prima che Calaf torni a dormire.
Valere Gergiev conduce l'orchestra della Scala in modo assai interessante, privilegiando suoni espressionisti, quasi primitivi, con un che di barbarico che fa apparire ancora più manierato il finale di Alfano. I momenti intimi sono rotondi, sontuosi, attenti alle sfumature. Il direttore controlla bene i tempi, a momenti il suono è decisamente importante. Ottima la prestazione del coro, preparato da Bruno Casoni: affiatato, giusto nei colori, coniuga potenza, delicatezza e varietà di accenti musicali.
Lise Lindstrom è una Turandot dalla voce corretta e precisa, dalla linea omogenea e controllata ma dal timbro vetroso e un po' aspro, che dovrebbe curare maggiormente la dizione; la principessa è qui una donna matura e consapevole, monoliticamente inavvicinabile. Stuart Neill è un Calaf potente e sincero, dall'acuto sbiancato; anche in lui la dizione è poco a fuoco ed il personaggio in generale è reso con poca incisività scenica. Ekaterina Scherbachenko è una dolce Liù, che però non commuove nel terzo atto. A Timur la voce scura di Marco Spotti conferisce gli accenti propri dell'età veneranda e della rispettabilità. Ieratico nell'aspetto e giusto nella voce l'imperatore di Antonello Ceron. Ping, Pong e Pang sono gli affiatati Angelo Veccia (bene nella "casa nell'Honan"), Luca Casalin e Carlo Bosi. Con loro, adeguati: Ernesto Panariello (il Mandarino), Emilia Bertoncello (prima ancella), Marzia Castellini (seconda ancella) e Jaeheui Kwon (il principe di Persia).
Teatro gremito con molti stranieri di varie nazionalità; vivo successo e lunghi applausi per tutti. Ai più è sfuggito il passaggio iniziale a luci basse e non hanno quindi compreso la scena finale con il principe addormetato sotto gli occhi (stupefatti) di Turandot e del coro schierato al completo.