Una Turandot nel solco della tradizione, condita di quel pizzico di monumentalità che in questi casi mai non guasta, quella andata in scena in questi giorni al Regio di Torino: un allestimento più che testato, prodotto dal Teatro Carlo Felice di Genova ormai una decina circa di anni fa.
La scena è sostanzialmente fissa: al vertice di una grande scalinata bipartita, un arco in pietra a tutto sesto e una balconata da cui si affacciano l’imperatore e la sua corte; sullo sfondo un cielo cangiante che vira dal rosso porpora del tramonto, al blu cobalto trapuntato di stelle della notte, fino a incendiarsi dei bagliori di un’aurora ormai incipiente; ai lati si ergono monumentali colonne decorate con fregi che, più che rinviare ad una Cina immaginaria, paiono suggerire legami con le civiltà sorte sulle rive del Tigri e dell’Eufrate. Sontuosi ed efficaci i costumi di Elisabetta Montaldo, svincolati da una precisa collocazione temporale; a tratti un po’ eccessivi, invece, i movimenti coreografici ideati da Giovanni Di Cicco che insiste particolarmente sulla figura del boia, il quale ogni volta compare in scena maneggiando in modo vistoso una scimitarra e facendo evoluzioni con essa. Curata la regia di Giuliano Montaldo che sa imprimere una generale ieraticità ai movimenti delle masse puntando, in linea con l’allestimento, sull’effetto kolossal.
Johanna Rusanen, al suo debutto nel ruolo, è una Turandot dalla forte presenza scenica: la voce è bella, rotonda e robusta, un po’ troppo maestosa e imponente però, il che contribuisce a delineare una principessa a tratti eccessivamente granitica e un poco monocorde. Di spessore il Calaf di Roberto Aronica, eroico e persuasivo, solido nello squillo, quanto convincente nei centri e nei gravi. Carmen Giannattasio, dal canto suo, delinea con precisione la sua Liù: l’emissione è ben controllata, il timbro piacevole ma, sebbene non siano possibili appunti formali, ne esce ugualmente la figura di una giovane schiava leggermente sbiadita e un po’ priva di colore. Donato Di Gioia, Luca Casalin, Saverio Fiore interpretano con onore rispettivamente i ruoli di Ping, Pang e Pong senza scivolare nel macchiettiamo, ma ben tratteggiando le varie sfumature di cui le tre maschere sono portavoci. Antonello Ceron è un Altoum tremante e senescente, dal timbro e dal portamento adeguati; Giacomo Prestia un robusto e convincente Timur. Con loro il mandarino di Ryan Milstead, il principe di Persia di Dario Prola, le due ancelle di Eugenia Braynova e Manuela Giacomini.
Direzione intensa, vigorosa, che ricerca la robustezza e la sontuosità del suono senza però trascurare completamente le coloriture intimistiche presenti nella partitura, per Pinchas Steinberg che può godere dell’apporto di un’Orchestra del Teatro Regio in piena forma. Molto buona anche la prova del coro, affiancato da quello di voci bianche del Teatro Regio e del Conservatorio “G. Verdi”.