LA STANZA DEI GIOCHI
Che cos'è la vita se non un gioco di ombre che si incrociano? Ma se avevo dei dubbi che Turandot fosse davvero prigioniera della paccottiglia da “ristorante cinese” a Napoli me li sono tolti, perché il pubblico non ha apprezzato la bella, intelligente messa in scena di Denis Krief. Il quale immagina uno spazio chiuso, raccolto, intimo. Una stanza dei giochi. Un ripostiglio per la mente. Non necessariamente legato alla fanciullezza, ma àncora di salvezza ad ogni età anagrafica. Una stanza da cui la principessa si ostina a non uscire, una stanza piena di bambole con le sembianze dei personaggi dell'opera, lei stessa, Calaf, l'imperatore. Turandot fatica a confrontarsi con il mondo reale e preferisce giocare con le sue bambole. Gli umani sono burattini, a momenti incedono con movenze clownesche, anche se si poteva evitare il trombettiere che imita Totò (vabbè che siamo a Napoli...). Le bambole spuntano come fiori dal terreno, fiori-burattini, elementi di un giardino da favola che connota profonde scollature sentimentali e relazionali. Liù rappresenta invece, anche nell'abbigliamento, il mondo reale, un modo di amare concreto e terreno.
L'ambiente è la Cina del passato prossimo, quella maoista, per cui i costumi rendono il luogo e il tempo in modo misurato e convincente. Non è la Cina di "Lanterne rosse" e non vuole esserlo, ma è comunque un luogo preciso e connotato. La scena è essenziale: sfondo che si apre a ghigliottina, due pannelli orizzontali che si sovrappongono e si sdoppiano con grande effetto visivo per merito di luci meravigliose. Un cubo di assi per la casa, un semicilindro di lacca rosso per la stanza della principessa. La Cina è questo: un rigoroso e rituale rispetto geometrico di disegni imperscrutabili riprodotti nella scrittura, negli interni delle abitazioni, nei giardini, nell'architettura, nell'urbanistica. Le luci segnano profondamente gli ambienti e gli stati d'animo nel succedersi di colori forti e primari: bianco, rosso, azzurro, verde, giallo, arancio, fucsia. Tutto di Denis Krief, autore, oltre che della regia, di scene, costumi e luci. Non nuova ma calzante la resa della luna come un palloncino bianco nelle mani di un clown, che scoppia durante l'esecuzione del principe di Persia. Molto bella la scena con le ancelle di Turandot, concubine che agitano lentissimamente e con estrema, sensuale mollezza dei grandi ventagli, creando un'atmosfera orientale, che, per contrasto, rende ancora più lontano dal reale il mondo in cui vive Turandot.
Pinchas Steinberg non ha brillato nell'esecuzione ed ha diretto in modo monotono e con cadenze ottocentesche una partitura che ha il suo punto di forza, al contrario, nelle modernità novecentesche. Il Coro è stato preparato adeguatamente da Marco Ozbic; Stefania Rinaldi si è occupata delle voci bianche. La messa in scena, proveniente da Karlsruhe, era stata alla Fenice nel dicembre scorso.
Giovanna Casolla è una ottima Turandot, nonostante la voce, soprattutto nel vibrato (in particolare in quelle frasi alte da sostenere a lungo), risenta della fatica di un repertorio di particolare impegno centrato sul verismo. Ma il bellissimo timbro, brunito e compatto, è sempre affascinante e di rara suggestione. I registri sono solidi e pieni: l'alto affrontato con potenza, il medio di notevole spessore e il grave incisivo, sicuro ed esteso forse ancor più degli altri, permettendole di rendere al meglio un personaggio tormentato.
La prestazione di Norah Amsellem è parsa al di sotto delle possibilità del soprano ed ha deluso. Certo la pronuncia è notevolmente migliorata rispetto al passato, ma l'aria del primo atto è affrontata con toni solo dimessi, senza partecipazione sentimentale; pur in presenza di buoni centri, la voce ha una certa fissità ed è mancato quel pianissimo che rende il momento commovente. Nel prosieguo la prestazione è migliorata, tuttavia non è stato reso quell'intenso lirismo che deve coniugarsi a sensualità e forza d'animo e di carattere, che il contrasto di accenti manifesta.
Non all'altezza il Calaf di Antonello Palombi, in evidente difficoltà nel registro acuto, nel resto più muscolare che raffinato. Marco Spotti è un solido e autorevole Timur, Max Renè Cosotti l'imperatore un po' acerbo. Bravi Ping, Pang e Pong, rispettivamente Giorgio Caoduro, Luca Casalin e Stefano Pisani, peraltro non occupati nelle solite, difficili evoluzioni. Il mandarino è Andrea Porta, che ha un ruolo attoriale particolarmente significativo nell'allestimento, introducendo i vari momenti dello spettacolo.
L'idea registica di Krief viene esaltata dalla versione incompiuta dell'opera che però, con quell'improvvisa interruzione, lascia gli spettatori sorpresi. I quali hanno manifestato qualche dissenso nei confronti del tenore ed ampie contestazioni, assolutamente immeritate, al regista, pur tra gli applausi convinti degli altri.
Napoli, teatro di San Carlo - 20 giugno 2008
Visto il
al
San Carlo
di Napoli
(NA)