Una Turandot di sicuro impatto visivo quella andata in scena come apertura di stagione al Teatro Filarmonico di Verona, una Turandot in cui il vero protagonista è Amore, un sentimento che risana il mondo e che trasforma Pechino da città buia e oppressa in capitale di un impero nel quale ha finalmente fatto il suo ingresso la luce. Quando il sipario si leva, infatti, si presenta al pubblico un popolo di miserabili, avvolto nelle nebbie, dominato dai rappresentanti della corte che fanno il loro ingresso in cima a tre cornici praticabili e mobili che consentono loro di non aver contatti col volgo dal quale volutamente si distaccano, nella gestualità come nell’abbigliamento colorato e sontuoso. A sottolineare ulteriormente questa distanza incolmabile, una serie di guardie armate per tutto il corso dell’opera argina le masse popolari senza identità che assistono a vicende da cui sono scientemente escluse. Solo nel finale la luce trionferà, la regina sarà liberata dai suoi fantasmi di ghiaccio e la città tutta si solleverà dalla miseria cui era avvezza. La regia di Filippo Tonon, nella sua linearità e semplicità, risulta perfettamente funzionale all’azione, così come lo sono le scene e le luci, pensate dal regista stesso; i costumi di Cristina Aceti raffinati, mai eccessivi, si inseriscono perfettamente in questo insieme di grande equilibrio.
Walter Fraccaro è un Calaf di sicuro impatto, dotato di una gran voce, molto solida in acuto: l’emissione talvolta appare fin troppo muscolare, caratteristica che va spesso a discapito dei piani e dei pianissimi, ma il personaggio è ben delineato. Tiziana Caruso incarna una Turandot giustamente crudele, venata però di dubbi e insicurezze: la voce è rotonda e di spessore, il fraseggio appare curato e lo squillo non mostra cedimenti. Donata D’Annunzio Lombardi tratteggia una Liù ferma e risoluta, la cui tradizionale dolcezza tradisce la forza di un carattere energico; l’accento è delicato e pulito, la voce solida e ben proiettata in tutti i registri. Perfettamente coordinati fra loro i tre ministri, Federico Longhi nei panni di Ping, Massimiliano Chiarolla in quelli di Pong e Luca Casalin in quelli di Pang. Poco udibile l’imperatore Altoum di Murat Can Güvem. Di grande spessore vocale e drammatico il Timur di Carlo Cigni. Con loro Nicolò Ceriani (Mandarino) e Salvatore Schiano di Cola (Principe di Persia).
Jader Bignamini offre una lettura della partitura ricca di drammaticità, ma anche intrisa di intenso lirismo. Particolarmente rotonde le sonorità nei momenti corali o solenni, cui viene dato risalto ricercando un volume corposo, mai però debordante e sostenuto sempre sullo sfondo dall’intenso vibrare degli archi. Molto buona la prova del coro, ben preparato da Vito Lombardi.