Lirica
TURANDOT

Parma, teatro Regio, “Turando…

Parma, teatro Regio, “Turando…
Parma, teatro Regio, “Turandot” di Giacomo Puccini PAZZO, VA' VIA.. Dopo due opere indimenticabili con allestimenti contemporanei e un sapiente, originalissimo sfoggio di tecnologia (“La pietra del paragone” di Rossini, creatori Giorgio Barberio Corsetti e Pierrik Sorin, e “La damnation de Faust” di Berlioz, creatore Hugo De Ana) la terza opera in cartellone a Parma, Turandot, ha proposto l'allestimento tradizionale ed elegante, carico di suggestioni orientali che Andrei Serban creò negli anni Ottanta per la Royal Opera House – Covent Garden. In attesa di Otello, che sta per tornare nella città ducale dopo quasi vent'anni. L'ambientazione è in un palazzo cinese di epoca indefinita, anzi nel cortile del palazzo, con dei ballatoi che rimandano al teatro elisabettiano, una corte circondata da una struttura in legno da cui si affaccia il coro e da cui tutti assistono alla vicenda che si svolge. Dai parapetti quattro mascheroni con gli occhi sgranati grondano sangue (invero strisce di stoffa rossa), poi si scopre che sono le teste dei pretendenti uccisi, nel momento in cui viene issata la quinta testa, quella del Principe di Persia con tanto di turbante. Dal soffitto scendono rosse strisce di sangue (di stoffa). Qui tutto è manuale, la luna cala dall'alto con funi nere e diventa sipario dietro cui compiere l'orrendo rito della decapitazione da parte di un boia-incredibile Hulk dalla pelle verde. Altoum scende dall'alto con una cigolante e dorata macchina teatrale. Carri vengono trainati avanti e indietro, evitabile quello con una mola gigante su cui il boia arrota la lama. Suggestivo, splendido il filtrare della luce, nei momenti di buio, dalle grate di legno di porte e finestre, un richiamare la tradizione orientale dell'intaglio ligneo che chi ha viaggiato dall'Iran verso est ha visto. Dominano i colori bianco, rosso e nero. I personaggi hanno una forte connotazione cromatica. Il popolo di Pechino è grigio con le maschere rosse, tutti uguali, indistinguibili. Turandot è bianca come il gelo e poi rossa come la passione; Calaf è celeste come un innocente e poi rosso come la vittoria; Liù è gialla, Timur è viola; Ping, Pang e Pong hanno pantaloni rossi, fazzoletti viola e casacche colorate (rossa Ping, arancio Pang e gialla Pong), un po' come i clown; bianco divino per Altoum, principe celeste che scende dall'alto con una macchina scenica quasi barocca. La regia è rispettosa del libretto e giustamente sottolinea il sacrificio di Liù, quando alla fine, nel duetto d'amore dei protagonisti, passa il corteo funebre della generosa schiava (anche se non mi è piaciuto che siano i tre ministri a torturare Liù). Bella anche l'idea di un telo di stoffa che passa in scena durante l'aria di Ping “Ho una casa nell'Honan”, come un sogno evanescente, qualcosa che arriva alla mente e poi se ne va. Andrea Gruber è una supelativa Turandot, un ruolo che le è congeniale: voce di un bel colore, timbricamente appropriata, controllata anche nelle zone più impervie della partitura, perfetta la pronuncia, curato il fraseggio. Marco Berti debuttava Calaf ed ha raccolto un successo strepitoso, meritato: il tenore ha una voce limpida e sicura, registri tutti perfetti, estrema facilità a salire verso l'alto e notevole tenuta nella tessitura acuta. Tutti lo aspettavano in “Nessun dorma” e Berti non ha deluso: Renzetti gli ha concesso il giusto tempo per un fraseggio curato, salvo una brusca accelerazione per preparare il finale strepitoso. Valentina Farcas, al settimo mese di gravidanza, ha tratteggiato la dolce Liù, all'inizio debolmente, poi via via migliorata, convincendo pienamente. Buona prova per il Timur di Marco Spotti, voce scura e vellutata, e per l'Altoum di Max Renè Cosotti, nonostante l'infelice posizione in cui è relegato per tutto il tempo (e la vertigine di essere calato dal tetto del teatro). I tre ministri sono stati trascinati dal bravo baritono Fabio Maria Capitanucci, mentre i tenori erano Gianluca Floris (meno in forma) e Mauro Buffoli. Corretto il mandarino di Armando Gabba. Con loro le ancelle Azusa Kubo e Maria Chiara Pizzoli. Il maestro Donato Renzetti ha tenuto tempi generalmente sostenuti ed ha privilegiato un volume importante, il tutto non a scapito dei cantanti e avendo a disposizione un'orchestra “regia”. Il coro ha una parte decisiva nell'economia di questa opera e Martino Faggiani ha fatto un ottimo lavoro con l'ottimo coro del Regio, come anche Sebastiano Rolli con le voci bianche. Grande successo di pubblico. Visto a Parma, teatro Regio, il primo marzo 2007 FRANCESCO RAPACCIONI
Visto il
al Regio di Parma (PR)