Lirica
TURANDOT

Poco esotismo, ma anche poca poesia nella nuova “Turandot” de La Fenice di Venezia

Turandot
Turandot

Una Turandot aliena da ogni superfluo esotismo – e fin qui saremmo d'accordo - ma anche priva dì varietà, di colori e d'un pur minimo alito di poesia.

Quante idee vanamente affastellate nella nuova Turandot pucciniana che la nuova regia di Cecilia Ligorio propone al Teatro La Fenice. Una Turandot aliena da ogni superfluo esotismo – e fin qui saremmo d'accordo - ma anche priva dì varietà, di colori e d'un pur minimo alito di poesia.

La scenografa Alessia Colosso incornicia con sinuoso profilo dal sapore liberty una scena pressoché unica, sgombra e fredda, cupa nei colori, monocorde nella penuria di luce che solo nel finale s'accende su di un'aurora rosseggiante.

Bizzarre scelte di costumi: la folla di Pechino indeterminata, indistinta, abbigliata sempre e solo con grigie uniformi da operai; i tre dignitari, di contrasto, in chiassosi completi rossi e con un codazzo di giovanissime repliche; solo i protagonisti e le guardie di palazzo sono vestiti da Simone Valsecchi con abiti pressappoco orientaleggianti. E' uno spettacolo che gira un po' a vuoto, algido ed inerte, incapace alla fine di comunicare e coinvolgere, all'insegna d'un regietheater dai tratti cervellotici - il Mandarino, chissà perché, in moderno abito, le candide ancelle con ramazze in mano - che non ci convince per niente.


Musica senza approfondimento

Se la regia non lega con il fluire della musica, in buca non è che le cose vadano meglio. Spigolosa e sovente slegata si mostra la concertazione di Daniele Callegari, che poco o nulla approfondisce in una partitura così ricca e complessa; mentre in orchestra, sotto la sua sollecitazione, sembra partire una sfida a chi alza i toni, ed anche la precisione del coro talora latita. Ovviamente, gli interpreti devono battagliare per emergere oltre lo spropositato muro di suono. Ed in questo oceano di suoni annega ogni varietà di colori, si perde la maggior parte dei prodigi timbrici ed armonici, e la mirabile tavolozza strumentale d'una delle vette musicali del Novecento.

Palcoscenico da registrare

Oksana Dika vorrebbe fare il soprano iperdrammatico, ma qui spara solo raggelanti bordate di suoni. Turandot non sembra ruolo per lei: il registro centrale forse ci sarebbe, buono per altri personaggi come Cio Cio San. Ma in quello superiore, senza adeguato fraseggio - quello che c'è, è sconnesso e disarticolato - i suoni risultano metallici e stridenti, e le frasi si risolvono in una serie di emissioni fisse ed asprigne. Walter Fraccaro risolve come d'abitudine il suo Calaf con un'emissione febbrile e magniloquente - volume e sonorità scolpita non gli mancano, sono un suo pregio - senza però periziarsi di infondere nel suo tetragono personaggio maggiori sfumature.


Carmela Remigio almeno si perita di proporre una Liù di adeguato rilievo vocale e dall'intensa carica espressiva, nella ricerca di un'umanità pietosa e credibile. Magari non ci riesce sino in fondo, ma le premesse ci sono. Funzionale, ma senza eccellere, il trio delle maschere: Alessio Arduini (Ping), Valentino Buzzi (Pang), Paolo Antognetti (Pong). Commendevoli il Timur di Simon Lim, e l'Altoum di Marcello Nardis. Armando Gabba è il Mandarino. Brave le voci bianche del Kolbe Children's Choir. Esecuzione col finale completato da Franco Alfano.

Visto il 10-05-2019
al La Fenice di Venezia (VE)