Lirica
TURANDOT

Regina della notte

Regina della notte

La Scala inizia gli intensi mesi dell'Expo con Turandot: dal primo maggio al 31 ottobre il teatro resta aperto praticamente ogni sera con opere, concerti, balletti, incontri. L'incompiuta di Puccini viene rappresentata con il completamento del terzo atto di Luciano Berio in un allestimento che proviene dall'Opera Nazionale dei Paesi Bassi e che è stato ripensato per l'occasione: nel 2001-2002 hanno lavorato insieme ad Amsterdam per questa produzione Luciano Berio, Riccardo Chailly e Nikolaus Lehnhoff. Il finale di Berio è molto compatto  e maggiormente aderente agli abbozzi di Puccini rispetto a quelli di Alfano: Berio ha usato ben 24 dei 30 frammenti lasciati dall'autore mentre Alfano solo 5.

La scena fissa di Raimund Bauer presenta un pavimento butterato, landa deserta o superficie lunare o spiaggia di approdo. Le tre pareti sono rivestite da spuntoni metallici come aculei e percorse da una terrazza praticabile. Sul fondo si apre a momenti un grande oculo circolare dove appaiono, enormi, prima la principessa e poi l'imperatore. I costumi di Andrea Schmidt-Futterer situano l'azione in un tempo indefinito e non collocabile geograficamente; caratterizzante quello della protagonista, trasformata in un'algida Regina della notte vestita di nero con ingombrante copricapo-maschera e scettro rosso sangue a forma di falce di luna, una corazza protettiva che poi nel finale lascerà a terra e restando in abito nero di lamè. Fondamentali per la riuscita dell'allestimento le luci di Duane Schuler che riempiono di rosso e nero il palcoscenico conferendo all'insieme una grande suggestione di impenetrabilità e senza via di uscita. A completare la parte tecnica le coreografie di Denni Sayers.

La regia di Nikolaus Lehnhoff vuole ricreare un senso di prigionia e tortura: la principessa domina su un popolo oppresso, schiacciato da un potere assoluto e dunque rappresentato in maniera uniforme con uomini e donne che restano per lo più immobili, in quanto entrano ed escono dalla scena mediante praticabili che salgono dal basso e ricordano vagamente l'immobilità e l'implotonamento dell'esercito di terracotta di Xian pur in abiti nerastri (capelli, cappotti e occhiali da sole). Il sacrificio di Liù è determinante nella trasformazione di Turandot e il corpo della ragazza resta a terra a ricordare ai due protagonisti quanto accaduto: nel finale le loro mani si toccheranno sopra il cadavere, prima di avviarsi verso il fondo, finalmente aperto a una nuova e vitale luce. Ma Liù resta a terra immobile: il prezzo pagato per il lieto fine di una crudele fiaba, la sua vita sacrificata per amore e soprattutto per altruismo. I ministri sono pagliacci e provano ad alleggerire il peso della vicenda, seppure è parso poco utile e meno ancora in linea con il contesto il concretizzare l'interesse per la casetta e il vagheggiamento di una lontana felicità con l'immagine di una pin-up come oggetto del desiderio.

Straordinario Riccardo Chailly in una direzione che mostra un immediato eppure profondo affiatamento con l'orchestra, fatto che fa ben sperare per gli anni a venire vista la sua recente nomina a direttore musicale della Scala. Una direzione fiammeggiante come il fuoco che ogni tanto serpeggia al centro della scena. Ampio spazio viene dato alle percussioni. Pervade tutta l'opera, ma soprattutto i primi due atti, un fremito novecentesco che vira all'espressionismo, esalta i brividi strumentali e conferisce alla partitura una luce inedita. I tempi sono larghi, il suono materico e pesante, importante nel volume, a tratti a discapito delle voci travolte dalla suggestiva e appropriata violenza degli strumenti. Qualche taglio è stato operato sulle parti dei tre ministri per guadagnare in compattezza e atmosfera. Nel finale il rallentare è evidente e crea una suspense di grande effetto. Nel complesso il direttore esalta il romanticismo tardo, quasi dannunziano, della partitura coniugandolo a pennellate di colore rovente, tra dolcezze estatiche e barbariche telluricità. Seppure il clima di favola è mantenuto, a dominare sono i contrasti, gli spigoli, la forza quasi violenta di una partitura di grande modernità che mai si era sentita così. Il culmine di una direzione perfetta si ha comunque nel finale per lo più strumentale, con echi di “Nessun dorma” e di Tristan und Isolde. Commovente.

Nina Stemme si conferma interprete di primaria levatura: la voce è grande e curata in ogni registro; in particolare si è apprezzato l'aver reso benissimo nel secondo atto la glacialità di Turandot e poi lo sgelamento nel terzo, rivelando la solitudine e l'umanità della donna. Stefano La Colla sostituisce l'indisposto Aleksandrs Antonenko e ottiene un buon risultato dal punto di vista vocale e attoriale: il suo Calaf un po' emozionato conquista il pubblico. Successo personale (meritatissimo) per Maria Agresta, Liù tenerissima di rara intensità e sensibilità. Corretto il Timur di Alexander Tsymbalyuk, a contrapporsi idealmente all'altrettanto corretto Altoum di Carlo Bosi. Disinvolti sul palco ma vocalmente non a livello dei precedenti Angelo Veccia, Roberto Covatta e Blagoj Nacoski (Ping, Pang, Pong). Adeguati il Mandarino di Gianluca Breda e il Principe di Persia di Azer Rza-Zada (impersonato dal mimo Mirko Lundi). A completare la locandina le due Ancelle, Barbara Rita Lavarian e Kjersti Odegaard. Perfetta la prestazione del Coro preparato da Bruno Casoni, a cui si è aggiunto il Coro di voci bianche dell'Accademia della Scala.

Teatro gremito, pubblico attento per tutto lo spettacolo con molti applausi durante la recita e nel finale. Nel programma di sala (insieme al quale viene distribuita la ristampa anastatica di quello della prima di Turandot alla Scala) è di grande interesse il saggio di Marco Uvietta sul finale di Luciano Berio.

Visto il
al Teatro Alla Scala di Milano (MI)