Rovigo, teatro Sociale, “Turandot” di Giacomo Puccini
TURANDOT AL CIRCO
A conclusione dell’anno pucciniano il Teatro Sociale di Rovigo presenta due titoli che segnano la vita del grande compositore lucchese: Le Villi, sua prima opera (che andrà in scena il 13 e 14 dicembre) e Turandot, l’ultima cronologicamente.
Rovigo ha messo in scena un allestimento di Turandot che il regista Henning Brockhaus aveva creato per il Teatro dell’Opera di Roma. Brockhaus, già collaboratore per tanti anni di Strehler, è un regista originale e creativo e lo dimostra in quest’opera in cui il taglio psicologico prevale sul taglio fiabesco. La rilettura attenta della biografia di Puccini lo spinge a identificare il compositore come Calaf, Elvira Gemignani la moglie gelosa e ossessiva in Turandot e Doria Manfredi la domestica innamorata di Puccini e suicida per amore nella figura di Liù. Turandot rappresenta la donna dura e inavvicinabile, l’antitesi della giovane schiava che è tutta tensione, pulsione e rimpianto. Orgoglio, amore, gelosia e passione diventano quindi i veri centri in cui gravita la regia che rinuncia all’aspetto favolistico/drammatico voluto dallo stesso Gozzi e al tradizionale aspetto esotico per prendere invece la via del dramma intimista e ricco di sentimenti.
La vicenda viene trasportata in una specie di sagra paesana ai tempi di Puccini; coro e solisti sono tutti in costumi degli anni Venti. Un forte colpo di gong annuncia l’arrivo del circo cinese. Tra clown e addetti al circo, il direttore/mandarino sarà il regista della favola. La gente in piazza è invitata a far parte della storia e la sagra paesana si trasforma in festa cinese. Tra la folla tre distinti signori ricevono da un clown delle maschere e indossandole diventano i tre ministri cinesi Ping, Pong e Pang; così pure una signora trova sulla bancarella un vestito e diventerà Turandot e succede anche per Calaf, Timur, Liù, e il coro. Diventano il popolo di Pechino ed ecco che il direttore d’orchestra attacca l’opera che tutti conoscono e amano. Ma l’imprevedibile succede nel terzo atto quando Liù si uccide per amore di Calaf. Finisce la favola, riprende la dura realtà della vita e tutti svestono tristemente i costumi cinesi per ritornare dei compunti borghesi occidentali e questo ritorno al normale segna anche la fine della composizione pucciniana e l’inizio della conclusione dovuta a Franco Alfano dopo la morte del compositore.
Una lettura abbastanza originale, anche se non nuova, che ha il pregio di insistere sulla psicologia in un’opera tendenzialmente sentimentale e talvolta trasportata allo sdolcinato, ma che ha diversi limiti nel voler sfumare troppo alcuni passi drammatici e nel leggere troppo la favola come una comica; il ruolo del clown (il bravo Jean Méning) è un elemento disturbante e inutile e rischia di concentrare l’attenzione del pubblico sulle sue performance invece che sul taglio drammatico degli eventi, non portando nulla all’azione scenica e teatrale. Sicuramente il pubblico non ha gradito molto il lungo prologo silenzioso posto dal regista, tanto che si sono levati commenti negativi a sipario aperto. Il corpo di ballo impegnato in una coreografia scialba, da avanspettacolo, poco in linea con l’opera.
Un discreto cast ha reso il tutto molto gradevole. Spiccava tra tutti il Calaf di Francesco Hong, coreano da qualche anno in Italia, che ha risaltato per la bella e veramente possente voce e per avere migliorato notevolmente la propria pronuncia dell’italiano; il suo nessun dorma ha mandato letteralmente in delirio il pubblico rodigino: la voce è pulita e gli acuti degni dei grandi nomi della lirica. Brava la Turandot di Giovanna Casolla, sicura e credibile, con una mimica degna delle grandi cantanti del passato, una principessa che domina il palcoscenico catalizzando l’attenzione dello spettatore; grande prova vocale e ottimo risultato con acuti squillanti e voce morbida e rotonda. Non convincente è parsa invece la Liù di Rachele Stanisci, dalla linea vocale spesso poco sicura. Su un livello medio gli altri. La scelta di intepretare il trio Ping Pang Pong (Walter Franceschini, Cristiano Olivieri e l’intramontabile Max-René Cosotti) come tre maschere della Commedia dell'Arte, più che come tre effettivi personaggi d'opera, fa perdere i colori e le caratteristiche del fraseggio. Ricordiamo anche gli altri comprimari: la bella voce di Gianluca Breda nel Mandarino, Marco De Carolis in Altoum e Elia Todisco in Timur.
Buona la direzione di Oliver von Dohnányi alla guida dell’Orchestra Filarmonia Veneta “Malipiero”, che ha saputo accompagnare bene le voci bilanciando bene il rapporto palcoscenico-buca nonostante qualche strumento rimasto in qualche punto isolato. Bravo il coro del Teatro sociale, guidato dal maestro Giorgio Mazzuccato.
Pubblico plaudente verso i cantanti, ma critico per la regia.
Visto a Rovigo, teatro Sociale, il 28 novembre 2008
Mirko Bertolini
Visto il
al
Sociale
di Rovigo
(RO)