Per la terza opera in cartellone la Fondazione Arena di Verona propone quest’anno Turandot per la regia di Franco Zeffirelli, un allestimento che, come è consuetudine in Arena, ricorda un poco i kolossal cinematografici del passato.
Una Cina rutilante di colori
La Pechino di Zeffirelli è oleografica e per certi versi immaginifica, un profluvio infinito di colori, di oro, di concubine dalle tipiche lunghe maniche, di maschere, di mandarini, dominato da quell’horror vacui che è un po’ la cifra stilistica del regista fiorentino.
Una platealità espressiva e una solennità magniloquente che in ogni caso piacciono al pubblico, il quale esplode in un euforico applauso quando, una volta rimossi alcuni pannelli, appare in tutto il suo fulgore la reggia imperiale che, con la sua maestosità, tende a sottolineare l’enorme frattura esistente fra il popolo, grigio e anonimo, e il mondo ammantato di un alone divino della Città Proibita.
Ottimo l’aspetto musicale
La concertazione di Daniel Oren è densa di colori, sonora e ricca di pathos. La sua bacchetta è agile, il suo occhio verso il palcoscenico sempre attento, così da accompagnare con il suo ampio gesto i cantanti ad ogni passaggio. Il suono è incisivo, grandioso, pieno di energia, perfettamente adatto al grande spazio areniano, una sonorità però che sa anche farsi dolce nei passaggi più lirici ed intensi.
Anna Pirozzi nel ruolo eponimo tratteggia la figura di una principessa algida, altera, proterva, icasticamente chiusa nel proprio mondo, che si muove sul palcoscenico con disinvoltura e lo domina con la sua personalità; i registri grave e centrale sono ben calibrati, i vertiginosi acuti squillano sicuri, non privi di una certa luminosità, una vocalità rotonda e ben timbrata completa il quadro di una interpretazione certamente di rilievo.
Splendido Gregory Kunde nei panni di un Calaf eroico, ma senza eccessi, che brilla per controllo del mezzo vocale e dei fiati, oltre che per la straordinaria morbidezza del legato. Ottima la dizione che evidenzia un vivo senso della parola scenica, eloquente l’accento, di notevole bellezza la tessitura vocale: tutti aspetti che confermano la presenza di un artista a tutto tondo, di vaglia straordinaria.
Ben delineata anche la Liù di Vittoria Yeo, abile nell’eseguire le smorzature tipiche del ruolo e capace di tratteggiare una figura di donna ferma, ma anche teneramente sentimentale. L’intonazione è solida, l’emissione controllata, ricca di sfumature soprattutto nei pianissimi, a tratti densa di poesia e vibrazioni.
Credibile anche il Timur di Giorgio Giuseppini che ben utilizza i suoi mezzi vocali caratterizzati da un piacevole colore brunito e ricchi di armonici.
Tutto sommato onesta la prova delle tre maschere Ping, Pong, Pang rispettivamente interpretate da Federico Longhi, Francesco Pittari, Marcello Nardis. Adeguato il Mandarino di Gianluca Breda. Complessivamente buona per amalgama e coesione la prova del Coro, preparato come sempre da Vito Lombardi.
Anfiteatro gremito di un pubblico eterogeneo, entusiasta e prodigo di applausi per tutti i protagonisti.