La 60° edizione del Macerata Opera Festival si apre con un nuovo allestimento di Turandot in omaggio a Giacomo Puccini nel centenario della sua scomparsa. Il direttore Francesco Ivan Ciampa per l’occasione sceglie di non eseguire il finale di Alfano o Berio, ma propone la versione originale incompiuta con un esito a sorpresa che vede il coro e i solisti, una volta spente le luci sulle note di “Liù! Poesia!”, intonare un trionfante “O sole! Vita! Eternità!” Il quale coglie il pubblico alla sprovvista.
Un allestimento di garbata eleganza ma scarsamente caratterizzato
Paco Azorìn, che cura scene e regia, ci propone un mondo orientale stilizzato in cui la città proibita viene simboleggiata da una semplice struttura architettonica di colore rosso che si staglia a ridosso del grande muro di fondo, ai cui piedi il popolo schiavizzato lavora all’interno di una grande risaia cui verrà dato fuoco, come rappresaglia, durante la ricerca del nome dell’ignoto. Turandot è difesa da amazzoni guerriere che fin dall’inizio trafiggono con lance il principe di Persia, prototipo di quel mondo maschilista che vogliono sovvertire.
Sebbene l’effetto generale sia di sicuro impatto, le idee sembrano finire qui: movimenti e gestualità appaiono piuttosto convenzionali e lo spettacolo non trova una propria via, un carattere che possa davvero identificarlo andando un po’ oltre le oleografiche coreografie delle succitate guerriere che si aggirano armate di archi e frecce.
Belli i costumi di Ulises Mérida, ad eccezione di quelli pensati per le amazzoni rese un po’ goffe dai loro larghi pantaloni arancioni. Pedro Chamizo dal canto suo proietta sul muro di fondo dello Sferisterio suggestive immagini e video, ben congeniali all’azione.
Alto livello musicale e canoro
Davvero interessante la lettura che Francesco Ivan Ciampa dà della partitura pucciniana ponendo l’accento, più che sulla solennità e sulla grandiosità, su un lirismo soffuso che mette in luce delicati toni intimistici, i quali raggiungono il loro apice sul delicatissimo e commovente finale.
In linea con quanto ricercato dalla direzione, Olga Maslova cesella alla perfezione una Turandot schiava delle proprie paure, ma al contempo capace, di fronte al sacrificio di Liù, di provare i primi palpiti di una profonda commozione. La linea di canto è sicura, garbatissimo il fraseggio, intelligente e calibrato l’uso delle mezze voci, solido e squillante l’acuto.
Magnifica al suo fianco la Liù di Ruth Iniesta che con la sua dolcezza e musicalità si pone come perfetto contraltare alla crudeltà della protagonista. Bene, ma con qualche accenno di fatica, anche il baldanzoso Calaf di Angelo Villari, intriso di ardimentoso eroismo, il quale sfoggia comunque una linea di canto sicura.
Molto bene Riccardo Frassi nei panni di un Timur quanto mai solido. Scevri da inopportuno e stucchevole manierismo il Ping di Lodovico Filippo Ravizza, il Pang di Paolo Antognetti e il Pong di Francesco Pittari.
Di qualità anche i comprimari fra cui spiccano l’autorevole Mandarino di Alberto Pettricca e l’Imperatore di Christian Collia, fortunatamente non affettato. Buona la prova del Coro Lirico Marchigiano “Vincenzo Bellini”, ben preparato da Martino Faggiani.