Nell’intima cornice del Teatro Goldoni va in scena The Turn of the screw, capolavoro cameristico di Benjamin Britten proposto in un nuovo allestimento nell’ambito del Festival Fiorentino che rende omaggio a uno dei protagonisti del teatro d’opera del Novecento, di cui si è da poco festeggiato il centenario della nascita. L’opera, tratta dall’omonima ghost story di Henry James, di cui il compositore inglese colse più che una storia di fantasmi i meccanismi inconsci, è volutamente ambigua in quanto viene lasciato supporre, ma mai chiarito, che cosa sia veramente successo ai bambini e non è certo se i fantasmi esistano o siano solo fantasie di un’Istitutrice repressa.
Lo stilizzato impianto scenico di Maria Paola di Francesco, giocato su bianchi, grigi e beige, ricrea con sagome e proiezioni l’architettura di una casa inglese turrita immersa in un boschetto con in cima la luna. Parte dell’azione scenica avviene nei palchi di proscenio ma anche sul fondo della scena dietro al velatino, dove le sagome dei personaggi mimano le scene in un secondo piano che accentua la distanza in un efficace gioco di luci e ombre (light design di Marco Giusti). Un rettangolo luminoso costituisce il cuore della scena: funziona da schermo su cui vengono disegnate le silhouettes dei protagonisti, come porte e finestre di una casetta dai tratti sghembi (un po’ casa Usher), ma soprattutto dal monolite di luce si generano proiezioni tridimensionali e spiraliformi che si espandono verso la platea. Benedetto Sicca, alla sua seconda regia lirica ma non nuovo alle sperimentazioni virtuali, sfrutta animazioni in 3D in funzione drammaturgica per materializzare un mondo simbolico e interiore. Le proiezioni non sono completamente esplicite e quindi risultano adatte per un’opera “mentale” giocata sul dubbio e sul non detto e nelle intenzioni del regista non sono i fantasmi a essere evanescenti ma piuttosto lo “spettro dell’indicibile”, proiettato verso il pubblico qui sollecitato a fare opera di re-interpretazione con i suoi tabù e gli sguardi indiscreti. Sorprendono (soprattutto all’inizio) e funzionano le animazioni in 3D di Marco Farace (visibili con appositi occhialini in dotazione del pubblico), in quanto sono evocative e in sintonia con lo sviluppo musicale: il treno che conduce l’Istitutrice si snoda come un serpente nello spazio, un cigno (immagine ricorrente) allunga a dismisura il collo in direzione del pubblico comunicando disagio, lettere dell’alfabeto e figure alate generano spirali, un volto maschile che si contrae in smorfie o labbra, arti e corpi che si sfiorano sono immagini che affiorano dalla luce e acquisiscono una materia di marmo e gesso. Non convince però l’aver reso i due spettri reali e onnipresenti (in scena o nei palchi di proscenio) speculari e simmetrici ai bambini posseduti; tale scelta attenua l’ambiguità di fondo e il fascino dei loro interventi vocali. Anche il finale lascia perplessi con Miles che, anziché accasciarsi al suolo dopo aver proferito “Peter Quint, you devil”, gli salta in braccio con complicità per dileguarsi con lui dal palco di proscenio. La ghost story fatta burla?
La produzione si è avvalsa di un cast ottimo da un punto scenico e vocale. Sara Hershkowitz è l’Istitutrice, la voce dalla dizione chiara e precisa è mobile e ben controllata e si modula alla perfezione per definire stati d’animo e turbamenti. La Mrs Grose di Gabriella Sborgi ha voce piena e il carattere ha un che di allusivo che, soprattutto alla fine, lascia intravedere altre possibilità. Una delle difficoltà dell’opera sono le parti dei bambini destinate a voci bianche: a Firenze il ruolo di Miles è stato affidato al piccolo Theo Lally che, nonostante i dieci anni, ha dimostrato, oltre alla notevole musicalità, un talento scenico consumato risultando inquietante e cattivo; Rebecca Leggett è una Flora adolescente e dispettosa dalla voce argentina. John Daszak è un Quint dotato di voce bella e possente, ma non sempre insinuante e si avverte qualche problema d’intonazione nei passaggi all’acuto. Per la vocalità incisiva assume buon rilievo la Miss Jessel di Yana Kleyn abbigliata in modo fantasioso e dark.
Jonathan Webb dirige con rigore e precisione una compagine orchestrale ridotta a tredici elementi per esaltare la natura cameristica della partitura e gli spessori orchestrali talvolta si assottigliano perdendo corpo come fantasmi. La direzione ha una tragicità asciutta giocata sul chiaroscuro e sulla variazione dinamica che imprime alla vicenda il giusto giro di vite con tensione crescente.
Meritato successo per una produzione all’altezza della fama del Festival.