È il 27 maggio del 1933. L'acclamazione entusiasta degli studenti combattenti della milizia paramilitare nazista Sturmabteilung (le SA, Squadre d'Assalto), non priva del contorno di bandiere uncinate d'ordinanza, accoglie all'Università di Freiburg il discorso del rettorato con il quale Martin Heidegger prende possesso del suo nuovo incarico, con un discorso in cui la simbiosi con quella atmosfera sembra potersi rintracciare anche in un particolare lessicale, quando nel pronunciare la frase "Tutto ciò che è grande… è nella tempesta", Heidegger fece uso dello stesso termine (Sturm) con cui Ernst Röhm e le sue SA appellavano se stessi (Sturm Abteilung).
È la stessa frase che intitola il lavoro portato al Nuovo scritto da Federico Bellini per la regia di Andrea De Rosa, inserito nella stagione dedicata al Fondamentalismo.
Questo è però soltanto il secondo tema, nel testo così elaborato, ed anche quello su cui si è spesa minore attenzione narrativa, rimanendo in larga parte secondario rispetto all'accento posto sulla forma di amore che lega l'allievo al maestro, presentata dalla regia con un assunto perfino platonico, ma che di Platone invece non ha più di quanto oggi avrebbe un pubblico in attesa dell'idolo di turno di uno show: quello dei fan idolatranti davanti all'apparizione della Star.
Sono cinque, i suoi fan sulla scena, e sono già presenti all'ingresso del pubblico, sono i vecchi allievi di Heidegger (fra cui Hannah Arendt) che di lui parlano celebrandone, anzi mitizzandone le gesta come per un oggetto di culto, prima che per una persona, perfino con santini-fotografie della sua vita privata nella foresta nera, fra cani e passeggiate. Nelle quali oltretutto domina un più adeguato faccione da signorotto di campagna.
"Lui faceva davvero le cose che Husserl aveva proclamato!", dicono, tanto per intenderci... ed il panegirico, anzi meglio, l'agiografia viene fortunatamente interrotta da una voce nascosta fra il pubblico, che come un grillo parlante di tanto in tanto interviene, sempre più spesso, fino a scendere ed a prendere, rubare loro la scena, invadendola materialmente: è la voce di Thomas Bernhard, che seccamente irrompe ed illustra quello che è stato ed è ancora oggi uno dei più discussi problemi della filosofia del Novecento: “Heidegger era nazista!”.
In questa diatriba, ancora molto presente soprattutto nel dibattito filosofico francese, il vostro cronista di chiara fede bernhardiana non resiste a non schierarsi, e per una volta esplicitarlo sembra anche avere lo stesso spirito dei contendenti: questo però ci si aspetterebbe anche dalle scelte del testo, mentre sembra che alla fine, nonostante un accento che arriva poco alto e nella seconda parte, manchi appunto una vera e propria chiarificazione nell'annosa questione. Più ispiratore nazista con il suo Dasein, o più Maestro riconosciuto, come in senso formale anche Karl Löwith ed Herbert Marcuse riconobbero, oltre che, natürlich, i suoi fan club rappresentati in scena da Caterina Carpio, Daniele Fior, Giovanni Franzoni, Candida Nieri e Valentina Vacca (tutti coi baffetti neri in stile heideggeriano, uomini e donne) e “capeggiati” da quella Hannah Arendt che anche successivamente alla loro relazione affettiva, rimase sempre incline a considerare soprattutto il suo maggiore ruolo, di insegnante così importante?
Da segnalare in particolare tre momenti scenografici particolarmente efficaci, tutti nella seconda parte: le decine di microfoni ad asta che nelle luci di Pasquale Mari sembrano disegnare quella foresta nera cui Heidegger era legato da un sentimento pressoché atavico (e dentro la quale la regia li denuda fisicamente per farli errare e sperdere); gli stessi baffi dei suoi seguaci che con un taglio di forbici si trasformano nei baffetti di Hitler, ed ancora le aste dei microfoni, che in un finale in crescendo anche wagneriano, vengono prima adoperati per pronunciare, anzi gridare incipit e citazioni da Kafka a Leopardi, da Omero ad Ariosto, e poi ripiegati uno ad uno e gettati in un falò virtuale, a mo' di simbolo (invero assai potente) di quel 10 maggio 1933, quando sull'Opernplatz di Berlino avvenne il più grande ed autocelebrato rogo di libri che i nazisti giudicavano “contrari allo spirito tedesco”, testi di Thomas ed Heinrich Mann, come di Brecht ed Heine (e di quest'ultimo perciò, andrebbe anche ricordato il profetico “Là, dove si bruciano i libri, si finisce col bruciare anche gli uomini” pronunciato oltre un secolo prima, quando già nel 1817 alla Wartburg gli studenti "patriottici" bruciarono scritti contrari alla «cultura germanica»...)
Riecheggia dal buio finale l'eco si un'altra considerazione, oscillante fra l'acume intellettuale produttivo e la completa indifferenza nei confronti del Pensiero, ma nei sessanta minuti dello spettacolo c'è appunto quasi soltanto lo spazio per fornire spunti... ecco, forse è soprattutto questa, l'idea che racchiude il senso sia formale che sostanziale dell'operazione, e se lo è, allora chiudiamo il cerchio, e troviamo la definizione perfetta e condivisibile in una citazione dalle Leggi di Platone che si trova in uno scritto della Arendt nell'epistolario con Heidegger: “L'inizio è una divinità, e finché è tra gli uomini, noi siamo salvi”.