Prosa
TUTTO SU MIA MADRE

(un po' di) tutto su mia madre

(un po' di) tutto su mia madre

Non è mai un compito facile, quello di valutare le parti ed il tutto di una operazione derivata come è quella di trarre un testo da una concezione originaria di qualsivoglia diversa natura, sia essa nata da un libro, da un film o da una drammaturgia teatrale: la trasformazione in altra natura sempre all'interno di queste tre comporta sempre, quantomeno, delle inevitabili premesse, ed infatti la stessa produzione, di volta in volta, ci tiene a sottolineare quanto non si sia trattato di un adattamento piuttosto che di una traduzione nel linguaggio nuovo. Trovo perciò sempre opportuno partire da questo punto di riferimento esplicito.
Tutto su mia madre è il capolavoro indimenticato di Almodóvar che nel 2000 gli valse l'Oscar per il miglior film straniero, oggi riscritto per il teatro da Samuel Adamson e già portato in scena all'Old Vic Theatre di Londra nel 2007.

Prima di aprire il sipario del Teatro Bellini, è essenziale ricordare alcune delle prospettive che ne hanno fatto uno dei migliori film del regista spagnolo; uno sguardo su un mondo nel quale tutto principia e tutto finisce e ricomincia nel segno della metà femminile del cielo, sia essa sotto la forma delle donne-madri-figlie-prostitute-femmine-aspiranti tali, sia perché, soprattutto, si fanno paladine istintuali di un'apologia dell'Accoglienza nella quale mi sembra di poter racchiudere il senso più alto ed ultimo dell'opera.
In questo senso, per inciso, piace ricordare per primo Alberto Fasoli, quantomeno per solidarietà all'uomo per caso, nella pièce curata dal regista Leo Muscato, in quanto unico uomo e protagonista plurimo per Alex, per Stanley, per i vari dottori e per un cliente.
Le donne di Almodóvar, infinite ma tutte infine sempre riconducibili all'Universale Femminino, sono Manuela (una Elisabetta Pozzi capace di trasformarsi in molte diverse donne), che compie per senso di colpa un viaggio a ritroso dopo la perdita del figlio, alla ricerca del padre; Rosa, una suora candida che immolandosi per il prossimo resta incinta, invischiata nelle strane reti di Lola, travestito recidivo che scomparirà come già aveva fatto con Manuela, la madre di Rosa, che solo nel finale si decide a raggiungere anch'essa l'ideale femminile di Almodóvar, Huma (Alvia Reale, forse la più convinta nel suo ruolo), l'attrice involontariamente causa della tragedia di Manuela, lesbica di un amore travagliato per l'attrice dissoluta Nina, ed infine Agrado (Eva Robin's, brava a non eccedere oltre gli eccessi che già le appartengono), figura estrema che racchiude l'estremo centro di tutte loro ed insieme dell'archetipo femminile: il conglobamento del dolore di ognuno e di qualsivoglia natura, nel più ampio e rassicurante mare dell'accettazione, della comprensione, del perdono e della dedizione (“mi chiamano Agrado, perchè per tutta la vita ho sempre cercato di rendere la vita gradevole agli altri”, come nel suo celebre monologo).
Al risentimento ed alla sofferenza, così, viene impedito di trasformarsi in rancore ed odio. Nessuna condanna, nessun giudizio, ed un'atmosfera generale di vita sotto e molto al di sopra del marciapiede che ricorda quella della Città vecchia di Umberto Saba (Qui degli umili sento in compagnia / il mio pensiero farsi / più puro dove più turpe è la via), la stessa che ispirò Fabrizio De Andrè per la sua omonima poesia-canzone.
Non per nulla, l'unica figura negativa, immatura ed irresponsabile, è quella di colui che donna non è riuscita a diventare, Lola, rimasta col peggio dell'uomo e col peggio della donna insieme, in un corpo indecifrabile, come fosse il fallimento di un obiettivo non raggiunto, quello di essere donna, e non certo in senso fisico (che resta soprattutto simbolico), quanto nel senso delle qualità femminili a cui dovrebbe aspirarsi anche da parte degli uomini.

Se però la scrittura di Adamson non voleva somigliare al film, come espressamente dichiarato, allora bisogna dire che ci somiglia troppo, al film, per alcuni aspetti tecnici, ovvero nell'inseguire i tempi e le pennellate della cinematografia sottraendone alla caratterizzazione tipicamente teatrale.
Efficace è il continuo richiamo al Tram chiamato desiderio di Tennesee Williams fatto rivivere dalla scenografia di Antonio Panzuto con un dietro le quinte da “teatro nel teatro”, ma resta una impressione confusa, soprattutto nella prima parte, con le sue 16 scene interpuntate da 3 monologhi, in cui i tanti quadri che si susseguono ottengono un effetto troppo da soap rispetto alle possibilità offerte dal palcoscenico, e non a caso nella parte riservata al finale si riacquista un senso più specifico, facendo sentire appunto con maggiore convinzione un elemento fondamentale come l'unione delle donne nella concezione di una famiglia vista come intercambiabile.

Di certo, non c'è lo sconvolgimento emozionale del capolavoro di Almodóvar, ed il finale, costruito da Alessandro Verazzi con il verde ed il viola del lutto autoprocurato, che rende tanto quanto l'indugiare sull'intima sensazione di saper seguire le orme dolenti di Federico García Lorca (non solo quello delle più volte citate Nozze di sangue, ma anche per la tonalità complessiva), serve anche per immaginare le potenzialità inespresse, ovvero come avrebbe giovato una scrittura più coraggiosa.

Visto il 09-12-2010
al Bellini di Napoli (NA)