Ubu Rex II Il teatro che divora è una rassegna di teatro del consorzio Ubusettete nato nel 2008 dalle "ceneri" di Ubu Settete, esperienza decennale che ha raccolto diverse realtà del teatro indipendente romano (è stato Rassegna teatrale, casa editrice, rivista critica indipendente).
Del Consorzio fanno attualmente parte quattro compagnie: Amnesia VivaceDaniele Timpano, OlivieriRavelli_Teatro, Teatro Forsennato e Kataklisma, che in due settimane di programmazione, dal 10 al 20 marzo, al teatro Arvalia propongono alcuni dei loro spettacoli che, pur nella diversità dei linguaggi utilizzati, presentano un fronte comune di pratica e politica del teatro per dare una risposta corale e forte ad un contesto viziato asfittico e ostile come ci sembra essere quello del sistema teatrale italiano come si legge nelle note di presentazione del Consorzio.
Kataklisma è presente in rassegna con le tre performance autoprodotte di K-O-Incidence un progetto di performance di Elvira Frosini al quale hanno collaborato Daniele Timpano e Antonello Santarelli.
Le performance di K-O-Incidence possono essere realizzate sia in teatro che in spazi non convenzionali. Performance vuol dire un lavoro di ricerca che si confronta e deriva da altri lavori, altri progetti che Kataklisma sta realizzando, mettendosi in relazione con situazioni, spazi, tempi e occasioni nei quali è possibile un incontro, un in-cidente, una co-incidenza come si legge nelle note di presentazione.
Can you eat me? di e con Elvira Frosini è la nuova produzione 2011 incentrata sul tema del cibo.
Una giovane donna sale sul palco, al buio, raggiunge un microfono col quale amplifica prima i suoni della sua bocca, quelli gutturali della glottide che si chiude mentre ingoia, quelli della lingua che biascica nella cavità orale.
Un consumo mimato di cibo in un'affabulazione altra che ipnotizza, culla lo spettatore portandolo in una condizione semi onirica. Poi una voce prima impercettibile poi timidamente più decisa inizia a fantasticare intorno al cibo, cibo da mangiare, da ingerire, da digerire. Fantasia sulla masticazione, l'ingestione in una ambivalenza tra mangiare ed essere mangiati, tra desiderio bulimico del cibo per ingozzarsi e la rinuncia anoressica al cibo per offrire se stessi, il proprio corpo in pasto agli altri, al mondo. Ecco che la voce recitante fantastica su un rito in cui tutti in mondovisione mangiano una parte del suo corpo, milioni di bocche in video, il rumore di milioni di bocche masticanti che scuote l'intero pianeta.
Una fantasia portata al parossismo orgasmatico dalle notevoli capacità recitative e oratorie di Elvira Frosini che tiene lo spettatore col fiato sospeso e dopo l'orgia di parole dette, proferite, ripetute, vomitate, approda al silenzio attonito quello dello spettatore e quello riconoscente del personaggio sul palco che si domanda se la stiamo digerendo...
Elvira Frosini usa l'amplificazione del microfono e l'emissione vocale con una maestria invidiabile, presentandosi prima come voce recitante, al buio, poi mostrando lentamente un corpo diafano illuminato da una luce flebile e impercettibile, una parrucca davanti gli occhi che le nasconde il viso, mentre si immagina di venire mangiata, ingerita e digerita.
Una performance che presenta un personaggio desiderante attratto dal mangiare prima come introiezione del mondo e poi, al contrario, come estroiezione del proprio sé da dare in pasto al mondo intero. Su questo racconto fantasticante, preciso e coerente, si innestano naturalmente tutte le valenze simboliche possibili.
Il performer dato in pasto al pubblico, ma anche il pubblico in balia del perfomer che si presenta in voce prima ancora che nel corpo, un corpo fragile, da proteggere dalla famelicità scopica di un pubblico venuto a vedere e invece chiamato a mangiare.
Una performance notevole, impeccabile, perfetta.
Déjeuner fa parte delle performance pensate per Serie su Bandiera un progetto di Elvira Frosini di performance e installazioni partendo dalla bandiera come oggetto concreto e dunque dallo spazio fisico che occupa e da quello simbolico che la bandiera richiama ed evoca, e dall'incontro di questo doppio spazio simbolico/concreto con i corpi umani.
Per assistere a Déjeuner gli spettatori sono chiamati a uscire da una delle porte d'emergenza del teatro che dà su un cortile immediatamente al ridosso della struttura, dove, illuminata un lampione urbano e da un singolo faro allestito per l'occasione, campeggia per terra, sulla ghiaia, una bandiera tricolore italiana disposta come tovaglia per un pic-nic.
Ai bordi della bandiera un ragazzo, in giacca e pantaloni, in posa plastica con la sua valigia 24ore e una ragazza, in gonna-tailleur, non distante da lui. I movimenti di entrambi, lenti, impercettibili, oppure repentini, a scatti veloci, cambiando posizione e posa, sembrano delle tappe senza strategia per guadagnare la tovaglia-bandiera sulla quale allestire un brindisi mentre dalle casse di un mangianastri un rumore prima flebile e poi sempre più assordante disturba la performance col suo suono ingombrante e fastidioso.
Finalmente sulla bandiera il ragazzo estrae dalla 24 ore due flute, porgendone uno alla ragazza che è sulla bandiera con lui, dei fiori che posiziona sula bandiera, ma anche una pistole e un fucile coi quali, dopo aver brindato, i due si uccidono a vicenda candendo a terra riversi ed esanimi. E mentre gli spettatori sono richiamati a teatro per assistere a un altro spettacolo i due performer, Giada Oliva e Simone Zacchini, rimangono in parte fino a che ogni spettatore rientra a teatro, immobili, congelati, morti sulla bandiera.
Solo apparentemente meno immediato e più criptico di Can You Eat me? il percorso di questa performance permette molteplici letture. A noi piace quella che nella retorica delle celebrazioni per l'unità d'Italia impiega la violenza tra i due performer come simbolo di violenze altre: opposizione nord sud, uomini donne, tra schieramenti politici, etc.
Una performance che si ammanta subito della potenza dell'evento che tiene gli spettatori tutti assiepati dinanzi i performer al freddo e al buio di una umida sera del marzo romano, tra una luce arancione del lampione e i movimenti dei due attori che non si risparmiano sforzo alcuno.
Un'altra performance riuscita, curiosa, intrigante e due performer in parte, precisi, misteriosi quanto basta.
Dopo aver assistito a un altro spettacolo, in teatro, siamo nuovamente chiamati fuori dall'edificio per assistere alla terza performance di K-O-Incidence.
Vetri un progetto sempre di Elvira Frosini e ancora con Giada Oliva e Simone Zacchini.
Una performance dietro i vetri. Nella fattispecie quelli che circondano e separano il teatro proteggendolo dal resto del piccolo parco in cui si trova.
Al di là del vetro i due perfomer hanno coperto l'intera superficie di schiuma da barba. Lo spettatore vede così uno schermo bianco che non permette di guardare attraverso il vetro. Mentre dalle casse stereo suonano le note della colonna sonora di Via col vento i due performer, dietro il vetro, dotati di secchi e di spatole lavavetri, puliscono brevi tratti del vetro dalla schiuma aprendo delle fessure geometriche, delle strisce rettangolari sul vetro attraverso le quali è possibile la visone, nei due sensi: noi vediamo loro e loro vedono noi. Un gioco scopico nel quale aprono fessure per mostrarsi e vedere a loro volta attraverso le aperture che fanno nella schiuma, via via più numerose e di dimensione variabile vediamo parti dei loro corpi, un occhio, un collo, un orecchio, le pubenda del performer fasciate dal pantalone attraverso un gesto del bacino rivolto verso il vetro, la gonna della performer che si muove quando improvvisano una sorta di danza a due, da fermi. Un gioco a più rimandi tra loro due il vetro e noi spettatori fin quando nettati i vetri di tutta la schiuma poggiano entrambi il viso sul vetro deformandosi il sembiante mentre scivolano sulla superficie del vetro. Poi, spatole e secchi alla mano, raggiungono il pubblico, con piccoli passi, e se ne vanno. Ciò che accade è più di ciò che vediamo recitano le note di presentazione. Ed è proprio così.
E' poi la volte dello spettacolo di più ampio respiro Risorgimento Pop memorie e amnesie conferite ad una gamba di Daniele Timpano e Marco Andreoli.
Il teatro di Daniele Timpano sa coniugare passione storiografica con una grande conoscenza delle dinamiche italiote, raccontate e messe alla berlina, con grande passione civile e politica dove la sua vena satirico-umoristica si declina con quella di denuncia per i pessimi costumi nostrani.
Dopo aver affrontato il fascismo strisciante in Dux in Scatola è la volta di un altro pezzo di storia italiana quel Risorgimento affrontato a teatro ben prima dell'orgia celebrativa (un po' retorica e ipocrita), dell'unità d'Italia, lo spettacolo infatti è stato prodotto esattamente un anno fa.
Spettacolo a due voci, vede Timpano affiancato da Valerio Malorni, indossando entrambi il clargyman (e non il classico abito talare) mentre annunciano al pubblico gli scopi del loro spettacolo una indagine sul Risorgimento (durante il quale l'Italia non è risorta, perchè prima l'Italia non c'era e se è risorta è anche rimorta...) individuando quattro figure, quattro padri della Patria: Mazzini, Garibaldi, Cavour e Vittorio Emanuele, più un antagonista, l'antipapà Pio IX. Tra vocazioni pedagogiche e ricordi da sussidiario delle elementari i due attori analizzano, ripercorrono, parodiano l'intero armamentario retorico risorgimentalista gareggiando per superare il Guinnes (tutta la storia risorgimentale in meno di 4 minuti e 30....).
Timpano e Vetriglia compiono un'indagine sulle permanenze risorgimentali nell'immaginario collettivo che si collocano nei nomi dati alle vie, piazze, ma anche ai dolci, gelati, sigari, giochi, piuttosto che in precisi concetti storici, compiendo un intelligente gioco di capovolgimento. Presentano biografie fantasiose (diverse morti di Anita inventate in romanzi storici scritti in Patria e all'estero) come fatti plausibili, smentiti subito dopo, e danno parvenza di fatti inventati a quelli di solida base storica. Più che sulla Storia e sulla Politica del risorgimento i due attori intervengono sugli aspetti privati delle vite di questi eroi, aspetti che più delle loro gesta sono assurti a simbolo patriottico nell'immaginario collettivo. Così raccontano dell'imbalsamazione di Mazzini (rifacendosi al libro di Luzzatto La mummia della Repubblica. Storia di Mazzini imbalsamato), di cui presentano la salma imbalsamata in palcoscenico, trafugata dal cimitero monumentale di Staglieno, a Genova (un manichino alquanto realistico, realizzato da Francesco Givone, con gli occhi che si staccano rimbalzando sul palco e la mascella che rimane in mano a Malorni) cui oppongono Garibaldi, il quale, nonostante avesse chiesto la cremazione, fu seppellito...
Ne deriva per lo spettatore uno spiazzamento cognitivo la cui vera causa non sta nello spettacolo, che anzi sfrutta intelligentemente le lacune dei suoi spettatori per invogliarlo a documentarsi, ma nell'ignoranza dello spettatore dimostrando la pessima memoria storica del Paese e anche la retorica di queste celebrazioni che non sono saldamente scritte nel nostro immaginario. Troppo distratti da pratiche consumistiche contemporanee gli spettatori (gli Italiani) vengono presi in giro apertamente. Timpano arriva a impiegare un brano di una icona pop contemporanea come Britney Spears come leit-motiv delle vicissitudini romanzate di Anita (una extracomunitaria emigrata dal Brasile...) su cui ripetutamente ritorna durante tutto lo spettacolo, attribuendo a Garibaldi un diario che invece è proprio della cantante americana... Privi di memoria e dunque di capacità di riconoscere l'attendibilità storica non possiamo giudicare la correttezza delle ricostruzioni, degli omaggi storici, che viviamo e fruiamo esattamente con lo stesso approcci di quando ascoltiamo Britney...
Si giunge così a un finale, spassoso e spiazzante, nel quale i due performer lasciano sul palco da soli la mummia di Mazzini e le ceneri di Garibaldi, hanno pensato loro a esaudire il suo desiderio, cremandone il cadavere, tranne la gamba, quella che fu ferita, augurandosi che il repubblicano e il monarchico si riappacifichino.... Ma nessuno dei due sembra fare ...la prima mossa. Timpano e Malorni esortano il pubblico a uscire dal teatro per lasciare i due eroi nella loro privacy. Il pubblico non coglie e rimane in sala. Malorni prima e Timpano poi rientrano sul palco accusando il pubblico di essere egoista, menefreghista, privo si senso della patria, poco rispettoso della privacy altrui, in una parola, italiano. Di nuovo lasciato solo il pubblico capisce stavolta che lo spettacolo è finito e lascia la sala. Troverà i due attori nel foyer a stringere loro la mano e infondere coraggio distribuendo dei piccoli bigliettini con l'italica bandiera con stampigliato sul bianco no, non lo stemma sabaudo, ma quello dello Stato Vaticano...
Ci si diverte molto assistendo a Risorgimento Pop e le risate sono corroborate dall'intelligenza della scrittura drammaturgica, dalla precisione di esecuzione con la quale i due attori ci ripropongono la storia del farsi del nostro Paese. Una storia che non conosciamo, la storia di un Paese che non è più e che forse non è mai stato.
RISORGIMENTO POP
memorie e amnesie conferite ad
una gamba
con
Daniele Timpano e Valerio Malorni
drammaturgia, regia
Daniele Timpano, Marco Andreoli
disegno luci Marco Fumarola
cadavere di “Giuseppe Mazzini” realizzato da Francesco Givone
musiche aggiuntive di Marco Maurizi
collaborazione artistica di Elvira Frosini
produzione amnesiA vivacE, Circo Bordeaux, RialtoSantambrogio,
Voci di Fonte
Con il sostegno di “Scenari Indipendenti” - Provincia di Roma
in collaborazione con Ozu, Area 06, Centro di Documentazione
Teatro Civile
PENOMBRA DEL PRIMO MATTINO si presenta come un dramma borghese dalle tinte un po' fosche, declinato in quattro atti dal forte sapore onirico (sin dall'incipit nel quale la scena è illuminata solo dall'intermittenza di un neon rotto mentre alla radio un commentatore si lascia andare a commenti astrusi).
Negli atti si racconta di un fratello e una sorella nati da stesso padre, un ex calciatore promettente cui un incidente ha posto fine a sogni di gloria (ma che ha intrapreso una carriera di cronista sportivo), e madri differenti, entrambe morte in incidenti causati dall'ex calciatore, il quale, adesso, sta per uscire di galera, e la figlia (che si prostituisce) non vuole vedere e per questo si è trasferita momentaneamente dal fratellastro. La sorella si presenta di notte nella casa del fratellastro con altri due personaggi (forse reali, forse no) che hanno pagato la sua compagnia. Quando se ne vanno lasciano una pistola che potrebbe essere usata dalla figlia contro il padre... Ma forse no.
Storie di una umanità degradata, malata, chiusa in trappola. Una storia raccontata due volte, con variazioni significative proprio come nei sogni (o nei film di Lynch). Il fil rouge è la ricerca del senso del male compiuta dal padre in un libro (che la figlia ha trovato e bruciato nel camino). Ma poi nel quarto atto tutto sembra cambiare...
Una storia dall'elegante struttura narrativa, interpretata con bravura dagli attori che danno credibilità a situazioni e personaggi colti nella loro ambiguità narrativa prima ancora che morale. Con qualche lungaggine che contribuisce a estenuare il senso di realtà che si infrange in un riverbero emotivo che preoccupa e seduce.
Quel che forse manca alla pièce è però la significatività del plot raccontato che, se vuole parlare della famiglia borghese malata rimane alla superficie di una storia le cui implicazioni partono da un perbenismo ancora squisitamente borghese e vagamente maschilista.
Se non abbiamo frainteso infatti, nel testo l'incesto del fratello, subìto dalla sorella, viene presentato come conseguenza della cattiva influenza del padre manesco oltre che uxoricida che a sua volta ha abusato della figlia. In seguito ai traumi la figlia si prostituisce e il figlio si dedica all'incesto.
Invece il ragazzo deve il suo comportamento al suo essere un uomo, un maschio in una società maschilistica e sessista, nella quale per evadere una donna può solo prostituirsi.
Se invece la storia è un pretesto per fascinarci con un racconto a-logico e onirico allora l'autore non osa abbastanza ingenerando confusione piuttosto che dubbi.
Struttura narrativa e plot dovrebbero sostenersi vicendevolmente ma finiscono ognuno per evidenziare i limiti dell'altra in una messinscena pletorica cui una certa sintesi (soprattutto nel primo atto) avrebbe giovato.
E' forse il ritmo a mancare per costruire interesse nei confronti di una partizione narrativa troppo diluita per apprezzarne a colpo d'occhio le varianti e le ripetizioni oniriche.
Se bisogna riconoscere alla messinscena un suo fascino, Penombra del primo mattino non sembra trarre le dovute conseguenze dalle sue premesse narrative dando l'impressione di rimanere in mezzo al guado.
PENOMBRA DEL PRIMO MATTINO
drammaturgia e regia Fabio M. Franceschelli
con Francesca Guercio, Lara Brucci, Corrado Scalia, Claudio Di Loreto, Davis Tagliaferro
voci fuori campo Marco Fumarola, Claudio Di Loreto
disegno luci Marco Fumarola
progetto grafico FineDesign
Produzione Olivieri Ravelli Teatro
LE ELEFANTESSE
Tre donne molto diverse da loro. Eva, una manager straniera sicura del fatto suo, affascinata da pratiche s/m; Beatrice, segretaria dal forte accento romano, ingenua e intraprendente; Luisa casalinga timorata di Dio dall'accento paesano. Raccontano tutte i loro incontri con gli uomini. Frequentano tutte e tre un uomo. Finiscono per sposarsi. Circostanze, comportamenti e coincidenze fanno capire, agli spettatori prima che a loro stesse, che l'uomo che hanno sposato è lo stesso. Le tre, conosciutesi, si coalizzano per vendicarsi.
Il palco è equamente spartito dai tre personaggi che raccontano le loro storie in parallelo all'inizio accavallandosi di continuo e poi, man mano che la storia procede, prendendo ognuna più tempo per il suo racconto.
Pur partendo dal cliché di tre donne caratterizzate da un accento che indica provenienza geografica e sociale, il testo sviluppa comunque la personalità delle tre protagoniste fino a un finale niente affatto banale o prevedibile. Anche lo status di donne sprovvedute con cui, per esigenza di commedia, si giustifica lo status di vittime ideali del poligamo (mentre nel mondo reale donne ben più scolarizzate e scaltre sono state ingannate loro malgrado) non induce lo spettatore a ridere di loro, ma con loro soprattutto quando le tre donne dimostrano di avere una personalità tutt'altro che debole.
Bravissime le tre attrici nell'interpretare i rispettivi personaggi che devono amare davvero tanto per arrivare a interpretarle in maniera così magistrale.
Anche Dario Aggioli, autore e regista della pièce, deve amare i tre personaggi perchè sa descriverli, pur nella loro naïveté, senza malizia né cattiveria non mancando mai loro di rispetto ansi mostrandoci delle donne tenere, bisognose di affetto ma anche vendicative e determinate a farsi rispettare come donne prima ancora che come mogli
La regia è efficace ed elegante nella sua semplicità la scena vuota dove recitano ognuna delle tre mogli mentre il marito poligamo non compare mai sul palco (tranne due incarnazioni fatte da due delle attrici che indossano i suoi vestiti) simbolicamente rappresentato dal un attaccapanni che campeggia al centro della scena.
Qualche piccola lungaggine, o, piuttosto, ripetizione non inficiano uno spettacolo che fa ridere e anche riflettere.
Le Elefantesse
con
Elisa Carucci
Carla Damen
Alessandra Della Guardia
disegno luci Dario Aggioli
aiuto-regia Andrea Standardi
ideato e diretto da
Dario Aggioli