UBU ROI

Ma <i>épater la bourgeoisie</i> è un'altra cosa.

Ma <i>épater la bourgeoisie</i> è un'altra cosa.

Jarry scrive Ubu Roi all'età di 23 anni ispirandosi al professore di fisica del liceo, monsieur Hébert, che il giovane e i suoi compagni di corso prendevano in giro. Greve, con un ventre immenso (così lo disegna Jarry stesso in degli schizzi divenuti famosi) Ubu spodesta il re Venceslao, prendendone il trono. Uccide tutti i nobili e i funzionari, raddoppia le tasse scatenando una guerra con lo Zar che vuole rimettere sul trono il figlio del re legittimo. Ubu, zotico e ignorante (storpia continuamente parole e concetti grazie a una vena felicissima di Jarry che conia molteplici neologismi, che purtroppo si perdono nella traduzione italiana) è stato visto di volta in volta l'antesignano del teatro dell'assurdo, del surrealismo, del teatro contemporaneo, ma, restio a ogni inquadramento, rimane il personaggio di un'opera unica nel panorama del teatro francese e non solo, tutta incentrata sulla volontà dissacrante di un giovane che non ha nemmeno finito gli studi di épater la bourgeoisie, scopo che gli riesce benissimo. Quando l'Ubu Roi va in scena, al Théâtre de l'Œuvre di Parigi, 10 dicembre 1896, fa scandalo tanto che, finché Jarry è in vita,  non sarà più rappresentato che una sola altra volta, il 20 febbraio del 98 con delle marionette.

Jarry muore ne 1907 a soli 34 anni e solo dopo la sua morte, l'Ubu entra nel repertorio di molti teatri francesi  e non solo fino a conoscere un successo internazionale mai sopito.

L'attualità del suo protagonista, che ne ha decretato il successo non sta nella messa in berlina della tiranno, quanto nel descrivere la brama di potere di un borghese che oltre ad essere crudele, vigliacco è essenzialmente stupido e prende decisioni contrarie ai suoi stessi interessi (come il massacro dei nobili del III atto).

Ubu Roi viene avvicinato da Roberto Latini partendo da una constatazione condivisibile quella che annovera il testo tra i grandi classici del teatro di ogni tempo.

Latini sceglie così di non interpretare alcun personaggio del testo ma, presentandosi in scena nelle spoglie del pinocchio (eco del suo precedente spettacolo Noosfera Lucignolo) si ritaglia un cantuccio lirico nel quale, tra una scena e l'altra del testo di Jarry, declama altri testi dal Macbeth all'Amleto, contaminando la partitura musicale che sostiene lo spettacolo, fatta di suoni e rumori, coi versi tratti dalla registrazione di Artaud del suo Per finirla col giudizio di Dio, usando un microfono (nell'uso del quale fa anche il verso a Carmelo Bene) e cimentandosi con una recitazione fisica al limite della performance fisica (una lunga catena appesa al collo che fa roteare librandola nell'aria; le  ripetute cadute atletiche e d'effetto).

La messinscena vera e propria dell'Ubu, semplificata nel numero dei personaggi e ridotta in quello delle scene, vede la rivisitazione personale e quasi sempre indovinata dei suoi protagonisti.

Il capitano Bordure ci viene mostrato zoppo e con un difetto di pronuncia che rende il suo parlare simile al verso della gallina, e al posto della mano destra ha una specie di artiglio. Madre Ubu, moglie e regina, vera mente del colpo di stato che mette Ubu sul trono di Polonia, è interpretata da un uomo con tanto di baffi,  che gioca sul doppio registro di una voce baritonale e una altissima.

La vedova di Venceslao è anch'essa interpretata da un attore che sfrutta in chiave femminea il suo accento francese al quale accompagna una esilarante postura da diva (tanto da impallare il principe Bugrelao col fazzoletto nero, a lutto, che tiene sempre in mano, il polso mollemente piegato).

Il re Venceslao è un giovane ubriaco che ride sempre, la cui corona è rappresentata da un megafono col quale sovrasta vocalmente sugli altri e la cui regalità è suggerita da una cornice dorata (che ritornerà, dopo il colpo di stato, a incorniciare Madre e Padre Ubu e lo stesso capitano Bordure).

Solo Ubu, che dovrebbe essere enormemente panciuto, si discosta dall'iconografia di Jarry e viene mostrato come un bullo in canottiera e cappotto di pelle, poco incisivo e decisamente sottotono rispetto la riscrittura degli altri personaggi.

Riletture irriverenti ed esilaranti che, a una prima lettura, catturano con gusto contemporaneo l'intenzione grottesca di Jarry. 

L'alternanza continua tra l'Ubu e gli interventi di Latini costituisce all'inizio un interessante confronto che sortisce quasi un effetto di commento intertestuale (come quando all'entrata in scena dell'anima degli antenati del re Venceslao assassinato da Ubu,  Latini contrappone i versi dell'Amleto quando il principe
incontra il fantasma del padre assassinato).
Man mano però che lo spettacolo procede questa continua alternanza tra Jarry e Latini distrae l'attenzione dall'Ubu (soprattutto nella seconda parte, dopo la pausa) a favore dell'attorialità di Latini che diviene vero fulcro drammaturgico dello spettacolo relegando l'Ubu a mero pretesto.

Anche le riletture irriverenti ed esilaranti dei personaggi rivelano la loro vera vocazione che non è quella dissacratoria di Jarry che voleva gettare in faccia al pubblico a lui contemporaneo il disprezzo per l'ipocrisia borghese e le sue rigide regole (a cominciare da quelle teatrali dell'unità aristoteliche, ogni scena di ogni atto si svolge in un luogo diverso) ma una più blanda intenzione di intrattenere il pubblico.

Lo si evince chiaramente quando Latini fa interpretare lo zar cui il capitano Bordure si rivolge dopo essere fuggito dal carcere in cui Ubu lo ha rinchiuso, come fosse un cinese (con tanto di finta annessa parlata) e relativa donnina con ombrellino di carta e cerimoniale corporeo fatto di piccoli inchini, piegando il testo originale a una comicità  grossier che pesca dal più trito dei luoghi comuni, di gusto televisivo e anche vagamente razzista (e che il pubblico apprezza massimamente).

Manca insomma a questa doppia drammaturgia una sintesi finale, che sappia superare la bipartizione LatiniJarry esaltando al massimo entrambe, senza sminuire nessuna delle due. Invece alla fine dello spettacolo l'Ubu Re si defila, sempre più relegato in un ruolo di sottofondo scenografico a uso e consumo della presenza metatestuale del suo regista attore che sembra sapere e capire poco del testo che mette in scena troppo preoccupato com'è a parlare di altro, e di sé.

Visto il 21-03-2012
al India di Roma (RM)