Sarebbe stato bello dire “400 anni e non sentirli” ma non è questo il caso. Come potrebbe essere possibile del resto, far passare tanti secoli e non sentire qualche scricchiolio, un doloretto al fianco, i segni del tempo? La scienza non lo contempla (ancora), figuriamoci il sentire comune o il gusto del pubblico. Per dovere di cronaca: 400 sono gli anni che si contano quest’anno dalla morte di Shakespeare, ma potrebbero essere anche quelli trascorsi grossomodo dalla scrittura di una delle sue più celebri opere, l’Amleto.
Lungi però dall’utilizzo di un plurale maiestatis arrogante e magari non condiviso, quello che non convince non è l’opera originale in se’, ma la versione contemporanea messa in scena alla Triennale di Viale Alemagna. Un altro Amleto, appunto, come ricorda il titolo stesso. Che fosse un pretesto per rispondere ad eventuali critiche sulla riuscita della messinscena non possiamo dirlo, ma quello che sicuramente si evince è che, nonostante lo sforzo e il tentativo di una rilettura moderna, accattivante e innovativa, si è probabilmente perso per strada qualcosa.
Il testo, certamente ambizioso, appare difficile da seguire: i quattro attori, che interagiscono frequentemente in coppia e molto più sporadicamente tutti assieme, sono protagonisti di scene simili a mini spettacoli che hanno poco in comune tra loro, dando la sensazione di non agganciarsi mai ad un unico filo conduttore, una trama comune. Una complessiva disomogeneità dunque, un’assenza di linearità forse voluta, e volutamente poco rassicurante per evidenziare il disagio, la solitudine, l’inquietudine, l’incompiutezza dell’uomo, nonostante tutto? E’ una possibile chiave di lettura, non la sola ne’ definitiva, di uno spettacolo che non riesce ad abbandonare le tenebre ed emergere in tutto il suo splendore. Vero è che il proposito era quello di proporre una dark comedy, ma il buio che motiva la scarsa comprensione di quest’opera è troppo spesso presente. Belle le trovate scenografiche, i nove (perché nove?) nani illuminati che piombano dall’alto, alcuni elementi di arredo - sedie che sembrano pale di mulini a vento - così come certi giochi di luci e l’idea dell’acqua scrosciante al di là delle vetrate delle finestre. Tutto talmente affascinante, da spostare però l’attenzione ancor di più da un testo debole nella sua capacità di catturare e tenere alta l’attenzione, forse più indicato per ristretti salotti di raffinate menti intellettuali, poco integrate alle masse di spettatori medi. Gli attori, ciascuno nella propria parte, hanno una buona resa, ma certi ruoli sembrano fin troppo enfatizzati: la regina Gertrude, madre del protagonista, è talvolta così irritante da non risultare credibile (si spera), così come l’Amleto al centro di questa rilettura nell’oscillare tra realtà e sogno/visione salta e urla, si lamenta e tace, ma non colpisce in modo significativo. Quanti non conoscono al di là del palcoscenico personaggi viziati, inconcludenti, apatici e parassiti, anche violenti nonostante la loro vacuità? Talmente diffusi, da non meritare l’ennesima rappresentazione teatrale che voglia solo mostrare senza proporre, se non una soluzione quantomeno una misura per misurare e arginare l’eccesso, soprattutto quando danneggia e non crea.