Un ballo in maschera, dramma che riluce di tetro

Un ballo in maschera, dramma che riluce di tetro

Frutto della piena maturità verdiana, Un ballo in maschera è fra i lavori più impregnati di contrasti. Ragione contro superstizione, amore opposto a lealtà ed a ragioni politiche, sono ingredienti sapientemente miscelati, con le tre figure centrali – Renato, Riccardo, Amelia - avvinte in una rete di irrazionalità. E' pure fra le opere più tormentate dalla censura, al pari di Stiffelio o Rigoletto, costringendo Verdi e Somma a spostarne l'ambientazione dalla corte di Gustavo III di Svezia – congiura e delitto sono dati storici – nella Boston di metà '600. L'americanizzazione della vicenda per fortuna preserva il plot centrale dell'opera, i caratteri non ne escono danneggiati, la lugubre cupezza delle tinte –«qui tutto riluce di tetro», commentano i clienti di Ulrica – rimane sostanzialmente inalterata.

Resta la città di Boston, l'epoca no

Per questo nuovo allestimento designato ad inaugurare a Venezia la stagione 2017/18 del Teatro La Fenice, il regista Gianmaria Aliverta ne pospone tuttavia l'azione a tardo '800, epoca in cui le ferite della Secessione sono ancora aperte, ed i contrasti razziali s'accentuano per l'abolizione della schiavitù. Idea non del tutto originale, però applicata con intelligenza malgrado qualche incoerenza col testo.

E l'ambigua oscillazione tra sarcasmo, horror e passione rimane intatta, e gli innumerevoli specchi nell'antro dell'indovina ben la raffigurano. Peccato che nel finale, collocato all'ombra della Statua della Libertà, si scivoli nel kitsch. Forti contrasti caratterizzano anche l'avvincente e profonda visione musicale di Myung-Wung Chung, attraversata da sonorità scabre e taglienti, con attacchi vibranti come un colpo di sciabola. Ecco dunque sortire un'esaltata drammaticità alternata a languidi abbandoni melodici, con un'orchestra che asseconda a puntino una lettura che scolpisce ed infiamma tanto i turbini melodici che i blocchi più drammatici.

Nel cast qualcosa non va

Se Francesco Meli tratteggia un Riccardo nobilmente sentimentale, lieve ed armonioso nelle arcate melodiche, con dovizia di tinte e limpido facile squillo, e se Vladimir Stoyanov consegna un Renato di vocalmente grana fine e caratterialmente sbalzato nel bronzo, purtroppo Kristin Lewis delude alquanto con un' Amelia debole e vocalmente altalenante, afflitta com'è da forzature nell'intera gamma e da un fraseggiare divagante.

Di contro, Silvia Beltrami s'impone con una tenebrosa ed affilata Ulrica; il garbato Oscar di Serena Gamberoni brilla per scioltezza e precisione, senza fastidiose smancerie; William Corrò centra con finezza un baldanzoso Silvano; i due congiurati Samuel e Tom sono appannaggio di due valenti comprimari, Simon Lim e Mattia Denti. Scenografie convenzionali e stereotipate di Massimo Cecchetto, costumi d'epoca di Carlos Tieppo