Lirica
UN BALLO IN MASCHERA

Luci e ombre nel ballo in maschera

Luci e ombre nel ballo in maschera

Vi riesce di immaginare un Verdi librettista, un Verdi sceneggiatore? Direi proprio di sì, non dovrebbe essere per nulla difficile, conoscendolo a fondo. Leggetevi ad esempio la corrispondenza con Antonio Somma a proposito della prima costruzione del “Gustavo III”, cioè quello che poi sarebbe divenuto ‘obtorto collo’, dopo tribolate peripezie censorie, dapprima “Una vendetta in domino” (bel titolo, invero) ed infine “Un ballo in maschera”. Ai primi di novembre del 1857, dopo aver avvertito il letterato udinese - buon drammaturgo ma inesperto librettista, alle prese con l’unica sua incursione in un campo alquanto minato - «che nel quartetto…abbiamo una scena un Coro di Congiurati a cui bisogna far dir qualcosa: fategli fare pure una strofa», rivolge la sua attenzione alla profezia della maga, ed esprime una serie di obiezioni al suo lavoro. «Tutto questo squarcio non è abbastanza scenico: voi dite, è vero, tutto quello che si deve dire, ma la parola non colpisce bene, non è evidente, e quindi non sorte abbastanza né l’indifferenza di Gustavo, né la sorpresa della Strega, né il terrore dei congiurati. Come la scena qui ha vivacità ed importanza, desidererei che fosse ben resa. Forse ve lo impedisce il metro e la rima? Se è così, fate di questo squarcio un recitativo. Preferisco un buon recitativo a delle strofe liriche mediocri». Ed a proposito della grande scena di Amelia nel lugubre campo solitario, qualche tempo dopo si lamenta che nella sua aria «Non c’è foco, non c’è agitazione, non c’è disordine (e dovrebbe essere estremo in questo punto)». Un esempio fra tanti altri, perfetto a dimostrare la netta vocazione drammaturgica e l’infallibile senso teatrale del grande Bussetano. Doti che, naturalmente, aggiunte alla fantasia ed alla dottrina musicale, fanno faville: vedi quel delizioso, breve Preludio che, come ne «Il trovatore», poggia le sue basi sul materiale melodico della scena seguente nell’ampia sala del Governatore di Boston. Di modo che, quando si alza il sipario, i personaggi sul palco proseguono un discorso che ci è già familiare, e del quale conosciamo già l’essenza.
Insomma, il lavoro di un buon regista dovrebbe essere in partenza alquanto facilitato, ma non è proprio sempre così. Ben se ne accorse il compianto Pierluigi Samaritani, che per la stagione 1989 del Regio di Parma vi lavorò sopra a lungo, varando però alla fine “Un ballo in maschera” memorabile, tradizionale nelle soluzioni e sfarzoso nei risultati, nel quale evocava un Seicento fantastico, ma senza connotazioni o collocazioni storiche o geografiche precise (come lui stesso tenne a precisare nelle note di sala). Però i costumi sontuosi ed i preziosi tessuti, le ambientazioni sceniche magniloquenti e grandiose, scelte di colori e luci sapientemente disegnate, evidenziavano nel suo procedere un richiamo alla grande stagione pittorica olandese, Rembrandt in testa, assai facilmente avvertibile. Passati oltre vent’anni anni, le preziose idee di Samaritani vennero riprese ed aggiornate da Massimo Gasparon per inaugurare in quel di Parma e Modena il Festival Verdi 2011, immettendovi un disegno registico teso a valorizzare la valenza drammatica di ogni scena. Ecco il tutto ora trasportato al Verdi di Trieste, ad inaugurare la sua Stagione 2014, sortendo il medesimo effetto: quello cioè d’uno spettacolo godibilissimo, intermediato dalla sciolta ed avveduta regia di Gasparon, con esiti scenici senz’altro eminenti. Restano, ahimè, le pochissime note stonate: che ci stanno a fare, ad esempio, dei cattolicissimi cardinali in lungo talare e borromeo rossi, nella protestante Boston? Solo a fornire una bella macchia di colore, vien da rispondere…, vien da
Come nelle recite emiliane del 2011, abbiamo ritrovato sul podio Gianluigi Gelmetti, segno di una evidente predilezione per questa doviziosa partitura. In realtà, mancavano nella sua concertazione la necessaria forza narrativa, la cura del dettaglio e dei fraseggi, anche perché i tempi adottati erano troppo sostenuti a scapito della fluente cantabilità melodica verdiana. Una lettura granitica e compatta, quella del direttore romano, poco incline alle morbidezze e con un crescendo di intensità sonora che ha mortificato anche gli splendidi tormenti psicologici dell’ultimo atto, dove le tre grandi scene finali costituiscono il culmine dell’opera.
Se la buca orchestrale offriva poca soddisfazione, neppure per il palcoscenico c’era da fare i salti di gioia. Gianluca Terranova ha consegnato un Riccardo energico ed aitante, ma con qualche rinuncia a sostenere il canto a mezza voce; molto apprezzato dal pubblico, innegabile, ma nondimeno non restituito con tutte le finezze necessarie. Il tenore romano, in poche parole, sa essere elegante ed estroso come richiede il personaggio, e regala un bel timbro e una decisa volontà di colorire il fraseggio; ma scarseggia di profondità proprio verso la fine, quando dovrebbe trovare le giuste intuizioni interpretative. Rachele Stanisci si disimpegna bene in un ruolo che le è congeniale, conducendo in porto senza troppe difficoltà una parte sopranile assai impervia. Appare più che adeguata in «Ecco l’orrido campo…», ma scivola via nel duetto seguente con Riccardo; sa essere altamente espressiva in scena con «Morrò, ma prima in grazia..», e riceve grandi applausi dalla sala; ma con una linea di canto non sempre morbida sminuisce qua e là una interpretazione altrimenti ben più ragguardevole. Devid Cecconi parte bene nelle intenzioni con il suo Renato, mettendo a frutto una personalità baritonale importante e che gli concede d’offrire slanci generosi ed attacchi infiammati; ma poi man mano pare perdersi per strada, così che i buoni proponimenti si dissolvono nell’enfasi eccessiva, e sfociano in momenti di canto non sempre nobili. La brava Sandra Pastrana esibisce un Oscar vocalmente ineccepibile, piacevole e brioso, dalle movenze giocose ma senza leziosità. Gratificata dal suono morbido e pieno Mariana Pentcheva centra in pieno un’Ulrica popolaresca, giovanilmente esuberante, schietta e risoluta, destreggiandosi con bella souplesse nella tessitura vocale mezzosopranile. Non proprio esaltante il Silvano di Dario Giorgelè; a posto quanti chiamati a coprire le parti di fianco: Giampiero Ruggeri (Samuel), Giacomo Selicato (Tom), Dax Velenich (un giudice vero, senza cachinni, finalmente!). Ottima prestazione del coro triestino diretto da Paolo Vero. Dietro le quinte, la fanfara della Civica Orchestra di fiati “Giuseppe Verdi”- Città di Trieste.
Nel secondo cast erano proposti, come principali protagonisti, Leonardo Caimi, Virginia Todisco, Aris Argiris.
Per inciso, anche il 2014 sarà per il teatro triestino un anno verdiano, come il 2013: nel suo cartellone trovano infatti posto a marzo “La traviata”, ed a maggio una ripresa di “Attila” della scorsa stagione.

Visto il
al Verdi di Trieste (TS)