Ultimo titolo delle nuove produzioni scaligere in occasione del bicentenario verdiano, “Un ballo in maschera” movimenta un luglio perturbato meteorologicamente, prima della pausa estiva e della ripresa autunnale con due allestimenti di proprietà, Simon Boccanegra (regia Stéphane Braunschweig) e Aida (regia Franco Zeffirelli), arrivando in coda a produzioni affidate a Robert Carsen (Falstaff), Daniele Abbado (Nabucco), Giorgio Barberio Corsetti (Macbeth), Mario Martone (Oberto) e Damiano Michieletto (Un ballo in maschera) che ha pensato una nuova drammaturgia che attualizza l'opera ma resta rispettosa di musica e libretto.
Il governatore Riccardo è nel pieno della campagna elettorale per la sua rielezione: lo staff è al lavoro e lui, completamente preso dalla vita politica e pubblica, trascura quella privata e sentimentale, trovandosi solo e malinconico quando non impegnato nei momenti ufficiali. Oscar è una donna (già Pier Luigi Pizzi l'aveva trasformata in segretaria nell'edizione dello Sferisterio del 2011), responsabile dell'ufficio stampa e segretaria personale di Riccardo, donna ambiziosa e volitiva che vive per il suo capo sconfinando il sottile limite tra abnegazione nel lavoro e infatuazione sentimentale. Renato è l'addetto alla sicurezza del governatore, a capo di un servizio di bodyguards; Amalia, sua moglie, una donna borghese e fragile. Ulrica è una santona, veggente e predicatrice come spesso si vedono nelle televisioni soprattutto americane.
Il contesto generale della messa in scena, più che americano in senso stretto, è occidentale in senso lato e situato nel contemporaneo. Le scene di Paolo Fantin sono belle a vedersi, perfette per la drammaturgia e funzionali ai movimenti scenici. Nel primo atto, al centro di uno spazio sghembo, c'è un ufficio hi-tech dalle linee rigide e dalle pareti vetrate rischiarate da neon sul soffitto (rimanda vagamente alla casetta di Cio-Cio-San nella Butterfly torinese); intorno pareti di vetro hanno intercapedini dove si insinuano sbuffi di fumo col risultato di far apparire l'ufficio, sede del comitato elettorale di Riccardo, un posto al riparo da subdoli comportamenti tipici di certa politica. Poi l'ufficio scivola in fondo ed entra lateralmente una gradinata che trasforma il palco nel “teatro” di Ulrica, studio-stadio dove imperano la credulità di poveri bisognosi e il suo sfruttamento. Voltata, la gradinata mostra un intrico di tubi e sbarre, periferia degradata, luogo di prostituzione e violenza in cui ambientare il secondo atto.
Nel terzo atto la “casa di vetro” è metà living metà ufficio, il primo vetrato il secondo no. Il ballo è il festeggiamento per la chiusura della campagna elettorale e si tiene nel vuoto e nel buio, dominato da un'imponente scritta al neon coi colori della propaganda e lo slogan del governatore, “incorrotta gloria”, preso dal libretto (Riccardo, primo atto): “Io deggio sui miei figli vegliar perchè sia pago ogni voto, se giusto. Bello il poter non è che de' soggetti lacrime non terge e ad incorrotta gloria non mira”.
I costumi di Carla Teti completano alla perfezione l'ambientazione e le luci di Alessandro Carletti sono le migliori possibili per rendere la visibilità delle scene nella crudezza dei fatti con un senso di irreale sospensione, come fosse un apologo nero.
Damiano Michieletto in questi anni ci ha regalato regie geniali frutto di drammaturgie inedite ma perfettamente calate nei libretti che non vengono assolutamente stravolti bensì vivificati da nuova forza contemporanea ed energica. Anche in questo caso non c'è alcuna forzatura del libretto e ogni gesto/azione assecondano la musica e il racconto, drammaturgicamente credibile e coerente, rispettoso della partitura. Michieletto viene dal teatro di prosa: massima attenzione è da lui data alla recitazione, non solo dei protagonisti ma anche delle comparse e di ogni singolo corista (basti pensare alla massa dei seguaci di Ulrica). Non ci sono controscene ma solo scene, anche affollate, dove il gesto di ciascuno compone il senso totale dell'idea registica che si dipana chiara e comprensibile. Così il racconto della campagna elettorale funziona alla perfezione, i personaggi sono ben delineati e seguiti nello sviluppo della vicenda che si traduce in evoluzione anche interiore.
Ulrica è lo specchio di una società consumistica priva di valori che tenta invano di ancorarsi a speranze e illusioni costruite sull'inganno e sull'abuso dell'altrui credulità (con l'aggravante di approfittare di stati di bisogno e dunque di maggiore vulnerabilità-fragilità). Il “solitario campo” è una squallida periferia urbana, luogo di prostituzione (“fuggevole acquisto” nel libretto) e violenza: le puttane aggrediscono una di loro che poi deruba Amelia (la scena pare scritta da Antonio Somma, leggete il libretto per credere). La scoperta del tradimento di Amelia espone Renato a un grottesco, pubblico dileggio che lo rende violento e vendicativo. La mano innocente che estrae dal cestino il biglietto con nome del killer è quella del figlioletto di Renato e non della moglie.
Durante il ballo gli invitati si nascondono dietro sorridenti totem, le sagome di Riccardo utilizzate per la campagna elettorale, la mano col pollice alzato come in celebri pubblicità o foto ricordo di momenti perfetti: i “cortigiani” che vivono nell'ombra-anonimato protettivo dietro le spalle del politico rendono invero la sua vita un labirinto vuoto e desolato di sagome inanimate dove trionfa la solitudine personale e affettiva e dove l'unico contatto è quello per chiedere un favore che poi dovrà essere ricambiato: Silvano, “comprato” da Riccardo, passa subito dalla sua parte. Renato abbatte pian piano molte delle sagome che ritraggono il rivale fino ad arrivare a lui. La scritta pubblicitaria per la campagna elettorale brucia sulle note finali, “Notte d'orror!”. Meno ha convinto lo sdoppiamento di Riccardo: comparsa morente a terra, cantante che si muove in scena. Ma non mancano tocchi di ironia: il distributore automatico di bevande calde nell'ufficio ha un display con la scritta “questa macchinetta ha l'anima”.
Daniele Rustioni imprime alla partitura il forte senso narrativo necessario allo sviluppo del racconto di una regia così avvincente. I tempi sono precisi e, nonostante la complessità di gestione del palco, i cantanti sono ben sostenuti, seppure qualche sbavatura c'è stata nelle file del coro complessivamente ben preparato da Bruno Casoni. È mancato al giovane direttore il delineare in modo più marcato e meno routinario quel contrasto tra pagine drammatiche e pagine di respiro più ironico e leggero che costituisce il pregio principale della partitura, resa con qualche eccesso di ruvidezza.
Marcelo Alvarez presta a Riccardo un volto e un contegno capaci di “bucare lo schermo” secondo le regole della moderna comunicazione, imponendo la sua visibilità a fini elettorali ma che rivela solitudine esistenziale e sentimentale quando i riflettori sono spenti; la voce, morbida ed espressiva, ha acquisito bruniture che si addicono al personaggio e si piega a indagare ogni risvolto che la regia suggerisce; anche se gli acuti potevano essere più limpidi e squillanti, lo slancio e la passione con cui il tenore affronta il ruolo lo portano ad apprezzati risultati, rilevanti in “Ma se m'è forza perderti”.
Renato è il ruolo che forse Michieletto descrive con maggiori cambiamenti: dalla fedeltà al governatore alla delusione per il tradimento della moglie e dell'amico, dall'attaccamento alla famiglia alla necessità di rabbiosa vendetta; Zeljko Lucic non teme le salite in acuto ma resta avaro di colori e convince maggiormente nei momenti bruschi.
Sondra Radvanovsky ha voce ampia ed estesa, il volume è importante e il timbro corposo, iscurito da morbide bruniture di grande efficaci emotiva per un'Amelia ben resa anche sul piano attoriale; se una pronuncia più curata migliorerebbe il fraseggio, tuttavia gli acuti sono saldi e le mezzevoci di rara intensità.
Autorevole la Ulrica di Marianne Cornetti, nonostante poco tonante in basso, tuttavia espressiva e calata alla perfezione nel ruolo. Dell'Oscar di Patrizia Ciofi si è apprezzata la brillantezza scenica, anche se una certa sicurezza in acuto non ha compensato le carenze nei registri medio e grave, praticamente inudibili. Non marginale la figura di Silvano, sia perchè qui diventa exemplum di un certo modo comportamentale, sia per la bravura di Alessio Arduini. Speculari e inseparabili Sam e Tom, Fernando Rado e Simon Lim, giusti vocalmente (soprattutto il primo) e disinvolti attorialmente. Con loro il giudice Andrzej Glowienka, il servo Giuseppe Bellanca e il coro di voci bianche dell'Accademia della Scala.
Teatro gremito. Ha sorpreso la violenta, esagerata e annunciata contestazione da parte di un pubblico preparato come quello scaligero verso uno spettacolo intelligente, rispettoso di musica e libretto e sostanzialmente non provocatorio: forse Michieletto si trova a pagare il conto dell'eccesso di attualizzazioni nella presente stagione milanese?
Tra il pubblico in platea il nuovo sovrintendente Alexander Pereira che ha chiamato Michieletto a Salisburgo lo scorso anno per Bohème (recensione presente nel sito) e quest'anno per Falstaff.
Nel programma di sala, tra le molte curiosità, l'immagine del libretto della prima scaligera del Ballo l'8 gennaio 1862: l'intestazione riporta “Regio Teatro alla Scala” in quanto Milano era da poco entrata nel Regno d'Italia.