Quel che canta Oscar nel terzo atto, invitando Renato e Amelia a casa di Riccardo per il ballo in maschera, poteva essere scritto nei manifesti di Santa Cecilia, che da sempre utilizzano frasi a effetto per un'intelligente e raffinata campagna di comunicazione che non ha eguali in Italia. Perché di ciò si è trattato: un'edizione splendidissima del Ballo in maschera. E dire che eravamo un poco prevenuti sull'esecuzione in forma di concerto, supponendo che fosse imprescindibile la visibilità scenica nell'universo verdiano che ha nella drammaturgia il suo punto di forza. Sbagliavamo. E in modo enorme. Questa edizione è stata memorabile.
Nel programma di sala Pappano spiega la sua decisione di dirigere a Roma quest'unica opera verdiana in Italia nell'anno del bicentenario con motivazioni personali e familiari, ma non noi possiamo non pensare a quella prima romana assoluta del Ballo nel 1859 nel teatro Apollo a Tordinona, ricordato anch'esso nel programma di sala, dove si menzionano le decorazioni pittoriche bellissime commissionate dal proprietario Alessandro Torlonia ma si omette di dire che furono eseguite da Filippo Bigioli, a cui la città di San Severino Marche (sua città natale) ha dedicato una mostra nel 1998 curata da Gianna Piantoni, nella quale furono parzialmente ricostruite quelle decorazioni (anch'esse “splendidissime” e oggi perdute) grazie ai cartoni preparatori ancora oggi conservati dal Comune marchigiano, recuperati in occasione dell'esposizione e riprodotti nel catalogo De Luca edizioni d'arte.
Antonio Pappano ha un rapporto privilegiato con l'orchestra di Santa Cecilia e riesce a trarne persino i fremiti impalpabili, una compagine di alta levatura tecnica in grado di rinunciare al sinfonismo che le è congeniale per piegarsi con stupefacente duttilità alle esigenze del teatro musicale verdiano volute dal direttore. Pappano ha sottolineato in modo efficace la leggerezza di alcuni momenti e la poderosità di altri sia dal punto di vista del suono che contenutistico. Ecco dunque che la parte scenica diviene quasi superflua quando l'orchestra suona in tale stato di grazia, a cominciare dalla sinfonia con gli archi che si allungano creando inusitate morbidezze di esplosiva espressività, per passare al preludio del secondo atto di grande forza emotiva e ai terribili affondi della scena della lotteria che si ammantano di telluricità wagneriana per poi chiudere nell'impalpabilità dei violini nel finale che spinge gli spettatori a bloccare istintivamente il respiro. Una musica che riempie la sala, la mente, il cuore, rendendo superfluo tutto il resto.
Francesco Meli è un Riccardo perfetto; nell'incipit “Amici miei... Soldati...” è generoso nella voce, forse per catturare il pubblico benché non ne abbia certo bisogno col mezzo che si ritrova. “La rivedrà nell'estasi” viene affrontata coi toni precisi dell'innamorato che riprende trepidante di ansia in “Di' tu se fedele”. La voce è luminosa e solare, dotata di medio corposo, acuto squillante e grave non appesantito, tutti esaltati dalla nitidezza della dizione e dalla spontanea comunicativa dell'accento. Nonostante manchi la parte recitativa, il pubblico resta irretito da un fraseggio giusto ed efficace, coi chiaroscuri espressivissimi e piani-pianissimi indimenticabili.
Dmitri Hvorostovsky è Renato e dobbiamo partire dalla sua eleganza formale, quasi ieratica e dall'appeal che catalizza l'attenzione, di cui egli è perfettamente consapevole; poi la voce: la linea di canto è bella, prodiga di accenti e sempre espressiva, attenta alle sfumature e alla perfezione dei legati. Il ruolo del baritono è sottoposto a notevoli cambiamenti, dall'affetto amicale di “Alla vita che t'arride” alla disperazione dell'agnizione e il siberiano li rende tutti con rara adesione.
Liudmyla Monastyrska ha voce notevole ed estesa; nonostante qualche carenza nell'espressività si impone per una linea di canto solida con cui risolve con successo le pagine acutissime e i momenti in cui le note centrali devono dominare gli strumenti (peraltro qui posizionati sullo stesso piano orizzontale dei cantanti) senza perdere del tutto la cura dei particolari. Nel lungo duetto del secondo atto un maggiore controllo delle mezze voci avrebbe portato a risultati superlativi ma il terzo atto è esente da qualsiasi censura.
Dolora Zajick viene introdotta da un abbassarsi delle luci che aumenta l'effetto diabolico della sua presenza in scena; la voce è ampia e di granitica solidità ma piegata all'espressività richiesta dal compositore, dimostrandosi grande interprete in grado di affondare nei gravi della partitura che si tingono di un nero inquietante e bituminoso che dà i brividi.
Laura Giordano è un Oscar perfetto, squillante e agile, ed è l'unica che tenta (con successo) un minimo di recitazione e mimica facciale per contestualizzare ciò che sta cantando e peraltro ottimamente.
Perfetti i due cattivi, Riccardo Zanellato (un granitico Samuel) e Carlo Cigni (un Tom dallo sguardo cupissimo e inquietante). Giusti nei ruoli di contorno Massimo Andreoli (Silvano), Carlo Napoletani (Un giudice) e Maurizio Trementini (Un servo di Amelia), tutti e tre artisti del coro di Santa Cecilia, mirabilmente preparato da Ciro Visco. Ha partecipato nel terzo atto la banda militare della Polizia di Stato.
Teatro gremito, nonostante gli abbonati di Santa Cecilia prediligano la sinfonica e non la lirica: massima attenzione in sala, applausi ripetuti, un trionfo nel finale.