Dal giorno del debutto, avvenuto a Parigi il 10 novembre 2010 nel Teatro delle Bouffes du Nord, sede del Centre International de Créations Theatrales, Un flauto magico di Peter Brook, titolo ufficialmente designato a divenire il suo testamento artistico, ha goduto di molte rappresentazioni: due al Teatro Grande di Brescia. Le note di Mozart e le parole di Schikaneder sono state liberamente riadattate (dallo stesso Brook con Franck Krawczyk e Marie-Hélène Estienne), scarnificate fino a raggiungerne l'essenza; ma avrebbero potuto essere le note e le parole di chiunque altro. Ciò che interessava era lo scorrere, senza esaurirsi, della Bellezza.
Questo è stato a tutti gli effetti il, anzi, un Flauto di Brook, una sua magia, al centro della quale ci ha proiettati.
Potremmo descrivere il coinvolgimento viscerale del cast di cantanti-attori in continuo rinnovamento (a Brescia erano Dima Bawab, Leïla Benhamza, Thomas Dolié, Betsabée Haas, Alex Mansoori, Roger Padullés, Vincent Pavesi, Abdou Ouologuem, Jean Dauriac), potremmo soffermarci sulla recitazione quadrilingue nel fluire di un linguaggio avulso da ogni contesto, oppure, da melomani quali siamo, potremmo entrare nello specifico delle vocalità cameristiche o della incisiva-non-incisività dell'accompagnamento al pianoforte (Vincent Planès).
Sbaglieremmo. La musica non è scaturita dalle voci o dai tasti: era sussurro dell'anima.
Nessun fattore è risultato singolarmente rilevante, se non l'intento complessivo: la ricerca di una naturalità cinta di colori onirici quanto immersa nella suggestione del presente. Se si fosse trattato di un altro regista, avremmo ravvisato un lavorio di sottrazione (proprio come stiamo immodestamente tentando di fare noi in queste righe). Brook ancor prima ha pensato per sottrazione, cercando, attraverso la narrazione del processo iniziatico dei protagonisti mozartiani, un proprio percorso di elevazione che ha saldamente poggiato, assieme ai piedi scalzi degli attori, sulla nudità terrena per suggerne l'energia propellente e librarsi al di sopra di ogni sovrastruttura o convenzione, umana e teatrale.
Il pianoforte in un angolo del boccascena, l'imponente struttura dell'impianto luci a vista, così come non camuffati erano i piedistalli della foresta di canne, unico elemento scenografico. Perché il teatro non ha bisogno di nascondere la finzione, che è la sua verità, il suo intrinseco soffio vitale.
A ben vedere, non c'è stato null'altro sul palco, se non un flusso di emozioni da assorbirsi sotto la pelle. Inutili i simboli, i fondali, finanche gli oggetti - disturbanti nella loro mansione raziocinante, superflui all'economia di un insieme dalla forza intuitiva - con la sola eccezione dei due rivestenti magici poteri sonori: un campanello a forma di triangolo ed un flauto. Quest'ultimo, sospeso a mezz'aria tra le mani del protagonista, nel quadro conclusivo è stato saldamente impugnato dal Mago come la bacchetta di un direttore d'orchestra, o forse, ci piace immaginare, come quella di Prospero, scatenante la Tempesta shakespeariana che costrinse i naviganti a sbarcare a riva, ed ora servita, a fine spettacolo, a far planare sulla terra gli spettatori dopo un volo di novanta minuti in uno spazio interiore universale, sospinti da un alito lievissimo di Poesia.