Ai più l'aggettivo norvegese …

Ai più l'aggettivo norvegese …
Ai più l'aggettivo norvegese applicato al sostantivo Teatro fa venire alla mente Enrik Ibsen e il suo testo Casa di bambola. Ma la Norvegia, per fortuna sua e nostra, ha altri talenti da esportare. Primo fra tutti Jon Fosse, classe 1959, romanziere, esordisce nel 1983 con Rosso, Nero (Raudt, Svart), poeta, è dell'anno successivo la sua prima raccolta, e drammaturgo, a teatro esordisce nel 1994 con E mai ci separeremo (Og aldri skal vi skiljast) diventando, in poco più di dieci anni, l'autore teatrale più rappresentato nella storia del suo paese, dopo Ibsen si capisce! Nel 1996 viene insignito del prestigioso Premio Ibsen per la pièce Il Nome (1995, Namnet) mentre in Italia vince nel 2005 il Premio Ubu per la migliore novità straniera con il testo Inverno (2000, Vinter), per la regia di Walter Malosti interpretato dallo stesso regista e dall’attrice Michela Cescon. Jon Fosse è molto rappresentato in Italia (si sono cimentati con suoi testi registi come Sandro Mabellini, Luciano Melchionna, Walter Malosti e Barbara Nativi) tanto che Valerio Binasco, il regista di Una giorno d'estate (1999, Eim Sommars Dag) allestimento prodotto dal Teatro Eliseo in collaborazione con lo Stabile di Torino, è alla sua terza prova con il drammaturgo norvegese. Quel che colpisce delle opere di Fosse è la rarefazione quasi metafisica con cui le azioni vengono portate in scena sostenute da dialoghi scarni, sostenuti da silenzi, omissioni, non detti... Caratteristica che accomuna molti dei suoi testi e che vale in particolar modo per Una giorno d'estate. Lo spettacolo si apre con una sorta di istantanea fotografica: nella scena color crema minimalista (quattro sedie, due uscite di quinta) troviamo quattro personaggi immobili, incorniciati da una scena che li separa dalla platea. A mostrare questa istantanea un sipario blu, gonfio come una vela, che non si apre ma cade improvvisamente a terra. La storia è essenziale nella sua semplicità. Una donna non più giovane riceve la visita di un'amica la quale constata come lei rimanga sempre più spesso alla finestra da quando, anni prima, ha perso suo marito in un incidente (ma non ho mai capito bene come sono andate le cose) uscito in barca e mai tornato. La donna ripensa ai fatti di allora, mentre la sua amica scende in spiaggia a fare una passeggiata (la casa dove si svolge la storia, di adesso come di allora, è vicina a un fiordo...). Anche allora la stessa amica era venuta in visita. La sua visita aveva indotto il marito della donna a una gita con la sua piccola barca a remi (mi piace sentire che ci sono solo pochi centimetri di legno tra me e il fondo del mare dice alla moglie che si lamenta bonariamente lui sia più spesso in mare che a casa). Così la visita per vedere la casa vecchia nella quale la giovane coppia si è da poco trasferita si trasforma in un'attesa che non avrà fine. In scena, mentre la donna anziana rievoca, nell'eterno presente nel quale vive, quei fatti, i personaggi di allora prendono corpo: facciamo così conoscenza della donna da giovane, innamorata e felice, del marito depresso, che non riesce a essere felice nemmeno se la moglie lo ha assecondato andando a vivere lì (anche se non riesce ad accompagnarlo in barca perché a lei il mare fa paura). Poi l'amica venuta in visita (interpretata dalla stessa attrice che interpreta lo stesso perosnaggio âgée), il marito dell'amica (che l'ha accompagnata ed torna poi a riprenderla) impacciato e insensibile all'attesa della donna (andiamo via sollecita alla moglie io domattina devo alzarmi presto). Il tutto commentato dal soliloquio della donna anziana che rendiconta azioni, pensieri e sentimenti, nel tentativo di fare ordine e capire cosa è successo. Da allora non si è mai ripresa, non si è rifatta una vita, è rimasta alla finestra in attesa di un ritorno impossibile. La donna anziana è così partecipe della rievocazione che interagisce quasi con i personaggi di allora (che occupano lo stesso spazio in un tempo diverso) al punto tale che deve scostarsi per far posto alla se stessa giovane che si siede disinvolta sul bracciolo della sedia dove è seduta lei... Finché alla fine della rievocazione, la donna anziana scambia un vero e proprio sguardo con se stessa da giovane in un gioco di ruoli tra personaggio evocatore e personaggio evocato. Un giorno d'estate ha l'universalità della tragedia greca, privata di tutta l'enfasi. Una donna ama un uomo che la riama come può. Da ego(t)ista, non riesce a vedere al di là di sé (nemmeno il marito dell'amica che, quando apprende che l'uomo è andato in barca, commenta da maschio tutto donne e motori, è pericoloso uscire con la barca di notte senza pensare minimamente che sua moglie sta cercando di tranquillizzare l'amica minimizzando proprio sulla concretezza di quel pericolo che verrà confermato di lì a poco quando la capitaneria di porto chiamerà per avvertire che la barca è stata ritrovata alla deriva e vuota...). Si è suicidato il marito? Si è lasciato morire? O è stata un'avventata disgrazia? Il testo non lo dice. Ma tra le pieghe di un'attesa che è resa palpabile dal silenzio che incombe sulla scena quel testo dice molte cose: che le donne sono capaci di sentire gli altri molto meglio degli uomini e in questo sono oltre i personaggi maschili ma, al contempo, non sanno prescinderne ne restano invischiate, ligie a un amore che è destino a mancare.
Credo che una delle costanti della mia drammaturgia sia la mancanza di continuità e di stabilità, che caratterizza le più intime relazioni sociali nei paesi protestanti del nord Europa; i bambini vivono sapendo che il padre o la madre un giorno se ne andranno perché avranno trovato un nuovo partner, e gli adulti che vivono in coppia sperimentano costantemente la fine del rapporto (...).
(Jon Fosse, intervistato da Rodolfo di Giammarco, in Jon Fosse teatro Editoria Spettacolo, Roma 2006 p. xv). Un destino di tragedia che è comune a tutte le donne (anche l'amica della donna da anziana si preoccupa che suo marito ritardi ne venirla a prendere...). Più che il silenzio che segue la tragedia avvenuta lo spettacolo mette in scena l'ineluttabilità di una tragedia che non può esser detta da parola alcuna. Non solo la tragedia della scomparsa del marito amato ma soprattutto quella dell'impossibilità della donna di vivere per se stessa, predestinata a una vita infelice perché la sua felicità dipende da qualcun altro, da un uomo, per giunta, incapace di vivere per se stesso figuriamoci per lei. C'è un che di antonioniano nei personaggi di Jon Fosse, nella loro incapacità comunicativa, nella inettitudine degli uomini e nello spreco di vita delle donne. Un testo magnifico difficile da mettere in scena perché da un lato ha già in sé tutti gli elementi della regia ma dall'altro necessita di un regista che si metta a servizio del testo e degli attori, come ha riconosciuto lo stesso Binasco nelle note di regia: Il regista assiste invidioso eppure al sicuro nel buio della sala, e non deve fare niente se non del suo meglio per creare, rispettare e far rispettare il silenzio. Questo suono dolcissimo che attraversa come un fantasma i drammi di Fosse e che solo a teatro è possibile ascoltare. Attori che Binasco dirige in senso antinaturalistico (come Elena Callegari che interpreta la donna anziana, la quale, a volte, fa una pausa interrompendo il senso logico delle frasi) e straniante. Tre attrici misurate e sublimi (doppio plauso a Federica Fracassi che interpreta lo stesso perosnaggio da giovane e da vecchia) mentre gli attori sono di una caratura minore (soprattutto Emiliano Masala, che interpreta il marito scomparso) dimostrando, in un ulteriore rimando tra testo e teatro che l'uomo, anche l'attore è, rispetto la donna, meno capace. Uno spettacolo algido, cerebrale, perfetto. Non lasciatevelo sfuggire. Roma, teatro Piccolo Eliseo fino al 7 dicembre