Parma, teatro Regio, “Un giorno di regno (Il finto Stanislao)” di Giuseppe Verdi
UN GIORNO DI REGNO NEL DUCATO DI PARMA
Nonostante il famoso fiasco scaligero (5 settembre 1840) è interessante ascoltare Un giorno di regno (Il finto Stanislao), unica incursione di Verdi nell'opera buffa, non capolavoro tra i massimi verdiani, però sono degni di rilievo l'azione e il carattere dei personaggi (da cui già si evince il mestiere e l'istinto teatrale di Verdi). Lo Stanislao del titolo è Stanislao di Polonia, re ad intervalli durante la prima metà del Settecento. Il libretto, tratto da una commedia francese, è incentrato sulla controfigura di Stanislao e sugli equivoci causati dalla sua presenza come ospite in casa Kelber, dove si sta preparando un doppio matrimonio, mentre il vero Stanislao è a Varsavia per ottenere il favore della Dieta.
Verdi componeva l'opera in un clima terribile di lutti familiari; nonostante ciò la partitura è ariosa e divertente, tiene conto delle influenze rossiniane e donizettiane non considerandole mere imitazioni ma rivisitazioni che preannunciano le grandi pagine successive ed autonome. Ovviamente in casi come questo tutto dipende dall'allestimento sceno-tecnico e musicale, per fare sì che la serata sia interessante o noiosa. E al Regio di Parma la serata è stata più che interessante.
Certe operazioni possono essere fatte solo a Parma, dove tutto parla di Verdi, anche di quello meno rappresentato. Occasione da non perdere questa inaugurazione di stagione con la riproposta dell'allestimento del 1997. Pier Luigi Pizzi, autore come sempre di regia, scene e costumi ha la brillante idea di trasferire l'azione da Brest (sul confine tra Polonia e Russia) a Parma e lo spettacolo diviene di raffinata bellezza, improntato sull'eleganza, il tono cordiale e raffinato, il gusto per la buona cucina, l'ironia e il buonumore che sono i tratti salienti della città emiliana.
Il colore dominante nella scena è il giallo, sia per gli interni che per gli esterni; gli elementi architettonici richiamano la città ducale, serliane, colonne, scalee e balconate. Pizzi è maestro insuperabile nell'eleganza dei costumi e qui davvero fornisce una delle sue prove migliori nei modelli, nelle stoffe, nelle declinazioni cromatiche.
L'inizio è in interno con barone e tesoriere intenti a fare colazione; il (finto) re è in veste da camera di broccato di velluto arancio bordata di pelliccia marrone. L'arrivo della Marchesa irretisce lo sguardo dello spettatore: cappello a tesa larga e manicotto di pelliccia neri, gonna fucsia sollevata a mostrare i pantaloni: una donna moderna e decisa, che presto si libera dell'abito in bouclè e raso con uno strip ironico e ammiccante per immergersi nella vasca di marmo, a cui assiste dalle finestre (non visto?) il Cavaliere.
Felice la scelta non solo delle citazioni architettoniche e cromatiche di Parma, ma anche della stagione autunnale fredda e nebbiosa che impone abiti adeguati. Infatti l'esterno è uno sfondo padano illuminato da un pallido sole invernale velato da brume con due alberi spogli. Per far fronte al freddo si utilizzano coperte di pelliccia, sopravesti in bouclè per le signore e ampi mantelli per i signori, cappelli e manicotti per tutti. A seguire la biblioteca, sempre con tavole imbandite che vanno e vengono: il piacere per la tavola tutto parmense. E, negli interni, via cappelli e soprabiti, via manicotti e pellicce per mostrare abiti dalla cromia decisa: viola e giallo, rosa e verde, azzurro e bianco.
Il secondo atto si apre in cucina, prosciutti e forme di parmigiano a dominare gli scaffali. Poi scale spostate a mano avanti e indietro, a creare ambienti con le serliane di fondo scena e boccascena che salgono e scendono a vista. Una folle giornata resa brillantemente e con gusto iconografico.
Donato Renzetti dirige con giusto piglio verdiano una partitura non particolarmente originale e ancora debitrice di influenze donizettiane e rossiniane; i tempi sono equilibrati, ben favorendo il gioco teatrale; il suono orchestrale è pulito, le voci bene appoggiate e bilanciate con la buca; i momenti leggeri, rossiniani, vengono alternati a quelli di maggiore impegno, già pienamente verdiani. Di particolare interesse in terzetto Marchesa-Giulietta-Edoardo del prim'atto, una delle pagine più felici della partitura resa in modo mirabile.
Nel ruolo della Marchesa del Poggio, Anna Caterina Antonacci si distingue per il canto elegante e controllato che rivela la bravura belcantista nelle agilità e nella parola scolpita. Carismatica e brillante, dal volto magnetico valorizzato dai raffinati copricapi di Pizzi, la “Monica Bellucci della lirica” focalizza su di sé gli sguardi degli spettatori ogni volta che appare sulla scena e la grande “tragédienne” (di cui abbiamo amato Medea e Alceste) si diverte a sedurre con un insolito, ironico strip nella vasca da bagno, ricordandoci che, oltre al fisico, sono il gusto e la leggerezza del canto a rendere “Se dee cader la vedova” interessante e per sedurre non bastano le gambe (benchè strepitose come le sue) ma è necessaria la voce (sempre come la sua). Insomma una Marchesa di grande carisma, dal fisico splendido e dalla voce fascinosa e perfetta: veloce nelle agilità, acuti squillanti e pieni, gravi corposi e luminosi. E, da ultimo ma fondamentale, una recitazione ricca di brio.
Alessandra Marianelli se la cava bene dal punto di vista vocale; attorialmente propone un personaggio all'opposto della Marchesa, evitando così di essere schiacciata dal confronto: una Giulietta tinta pastello, nei colori e negli accenti, particolarmente adatta ad interpretare la giovane innamorata con una voce fresca dalla linea curata (il libretto la vuole con il “volto angelico” e la Marianelli è proprio perfetta).
Guido Loconsolo (cavaliere Belfiore ovvero il finto Stanislao) ha un bell'aspetto ma non possiede quell’autorevolezza e precisione vocale che il ruolo richiederebbe, per cui il personaggio, poco a fuoco, stenta ad assurgere al ruolo di protagonista.
Il giovane Ivan Magrì ha voce potente; il ruolo di Edoardo ha molte dipendenze con quello di Nemorino nell'Elisir d'amore donizettiano e la partitura è impervia; il tenore ha estensione di voce ma ancora poca omogeneità, arrivando ai sopracuti con qualche difficoltà, cosa che non è piaciuta al pubblico che ha vistosamente (e poco elegantemente) rumoreggiato durante l'inizio del second'atto.
Due sono i ruoli buffi: Paolo Bordogna è un Signor La Rocca ottimo per verve comica, disinvoltura scenica e pieno controllo vocale; Andrea Porta è un barone di Kelbar convincente ma che potrebbe sfruttare di più le potenzialità del personaggio. Con loro Ricardo Mirabelli (conte di Ivrea) e Seung Hwa Paek nel doppio ruolo di Delmonte e un servo. Ottimo, come sempre, il coro (preparato in modo encomiabile da Martino Faggiani), vestito con costumi quasi monocromatici sui toni del marrone che virano verso il nero.
Teatro tutto esaurito per la serata inaugurale di stagione: Parma, giustamente, la vive come un evento secondo una tradizione secolare. E l'atmosfera è bellissima: eleganza raffinata e non vistosa, tutto all'insegna della sobrietà. Pubblico però un poco freddino: lo spettacolo meritava più applausi che quelli misurati sentiti alla fine.
Parma prosegue nell'operazione encomiabile di registrare tutte le opere verdiane entro il bicentenario. La serata è stata dedicata a Fausto Sabini, scomparso giovedì, macchinista teatrale e responsabile del laboratorio costruzioni sceniche del Regio, spoletino di nascita e parmigiano di adozione.
Visto a Parma, teatro Regio, il 29 gennaio 2010
FRANCESCO RAPACCIONI
Visto il
al
Regio
di Parma
(PR)