UN SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE
Di William Shakespeare
Regia di Giuseppe Marini
Traduzione di Massimiliano Palese
Nel buio quasi notturno della sala si ode una musica: le luci piano piano
illuminano i volti di un manipolo di candidi voyeurs, come osa definirli lo
stesso regista, i quali in una sorta di sogno surreale iniziano minuziosa e
sincrona danza. Questa li porterà a ritrovare nello sguardo, celato dapprima
da bende oculari, la voglia di guardarsi ancora e ancora rischiare di vedere
ciò che non ci piace. Gli specchi li aiuteranno in questo percorso
riflettendo, per loro e per noi, la nostra immagine. L’impresa sarà
supportata dall’uso di una lente, attraverso la quale vedremo gli occhi dei
protagonisti grandi come non mai, e loro ci appariranno nella loro vera
“stranezza”.
La scena è, all’aprirsi del sipario, candida ed essenziale. Il bianco domina
incontrastato sia la scenografia che i costumi dei protagonisti, impegnati
nella preparazione delle nozze tra Teseo e Ippolita, chiusi in una cornice
argentea, quasi a ricordare quei quadri dei signori di fine ottocento i
quali amavano farsi ritratte, per poi adornare con questi le pareti delle
loro nobili case. Ma del resto ci troviamo di fronte ad una coppia di
regnanti, davanti al loro giudizio si pongono Lisandro, Demetrio e la loro
amata Ermia, accompagnati dal di lei padre che la vorrebbe in sposa a
Demetrio da lei non corrisposto.
La storia segue il suo lungo filo presentandoci una per una tutte le sue
creature nelle loro più recondite sfumature.
Incontreremo in questo lungo viaggio due coppie di amanti, Elena innamorata
di Demetrio che insegue Ermia che ama, la quale vuol fuggire con Lisandro
oggetto dei suoi desideri. Questi giovani che ardono d’amore emulando le
gesta dei loro genitori, ci offrono una moltitudine di clichè e didascalie
da renderli surreali, ma nei loro comportamenti ritroveremo i nostri, così
innamorati, così vigliacchi, così meschini, così spaventati da ciò che
ancora non conosciamo ma sappiamo potrebbe accaderci.
In questa lunga notte d’estate si divertiranno a metter mano e zampino
Oberon e il suo amato figliolo Puck. Questo folletto del bosco, che nelle
intenzioni del regista vive nel nome del padre e per lui si fa carico delle
angoscie e dei dolori degli umani, è consapevole di essere il figlio
prediletto e tende così a porsi al pari di suo padre, motivo principale
delle sue cadute.
Da sempre, nei suoi voli supremi alla ricerca dell’irragiungibile, cade
inesorabilmente come del resto tutte le creature che popolano il regno del
bosco: la scelta registica pone molto l’attenzione sull’instabilità di
coloro che vivono il bosco, perennemente in bilico sempre zoppicanti.
Le sonorità scelte si appoggiano alle parole come per renderle musica, i
versi diventano come per incanto canzoni che ci trascinano in un lento e
inevitabile ballo, dove ognuno di noi si sente coinvolto e perde il senso
del reale.
Solo il tempo di sognare, una notte lunga e in cui ognuno dei protagonisti
verrà toccato dal gioco crudele di Puck e di suo padre Oberon, i quali si
burleranno dei sentimenti e dei personaggi della notte.
Un bosco ricco di incontri e scelto da molti per essere lo scenario di una
notte importante dalla quale tutti si risveglieranno trovando di nuovo le
loro vite così come le avevano lasciate prima di addormentarsi, ma
conservando nel cuore e nella mente le esperienze forti del sogno.
Tutti consapevoli di aver vissuto qualcosa che ora non c’è più, ma tutti
ugualmente sbalorditi della veridicità del loro sogno e della sensazione
corporea di aver vissuto altro quella notte nel bosco incantato.
Un bosco dove chiunque vi capiti viene posto sotto prova, come insidia nelle
nostre menti il regista, dove ognuno che vi si trovi tenta voli pindarici
verso un amore irraggiungibile, vero nucleo del testo a cui indistintamente
tutti i protagonisti aspirano compreso il beffardo Puck.
Da questo sogno irreale e fantastico ci riporta alla verità una tragica
commedia portata in scena da un gruppo di comici chiamati ad interpretare
una farsa il giorno delle nozze di Teseo e Ippolita. Questi attori,
indissolubilmente legati alla scena sin dall’inizio saranno i soli a
rappresentare la morte, raccontando la storia d’amore di Tisbe e
Piramo e il loro duplice suicidio facendo così comprendere il
senso profondo della nostra vita definito dal regista etereo nulla.
E proprio in questo nulla che si ritrovano i protagonisti sul palco, questa
volta tutti neri, come maschere neutre senza passato e senza futuro, tutti
uguali, tutti asini. Poiché secondo Giuseppe Marini: “[…] L’asinità dello
scolaro, dunque, è la lavagna nera sulla quale tutti i disegni sono ancora
possibili e passabili di cancellazione e riscrittura.”
Uno Shakespeare rivisitato e aiutato ad essere più attuale ma sempre con
estremo rispetto al senso stesso dell’opera scritta dall’autore inglese. La
regia ci è apparsa ben strutturata e attenta ad una progessione e ad uno
sviluppo coerente e chiaro rispetto alla volontà del messaggio.
Gli attori interpretano le intenzioni registiche con una grande grinta che
trasmettono a noi pubblico, cullati dalla forte energia emanata dalla
compagnia, tale da trasportare tutti noi con loro nel loro splendido sogno
di una notte di mezza estate.
Visto il
al
Duse
di Bologna
(BO)