Un tram che si chiama desiderio mette in scena il noto dramma di Tennessee Williams in un nuovissimo allestimento diretto da Pier Luigi Pizzi (che ne ha curato anche i costumi).
La storia della borghese Blanche (Mariangela d’Abbraccio) che, per fuggire da un passato oscuro si trasferisce in casa della sorella Stella (Angela Ciaburri) e del rozzo e violento cognato Stanley (Daniele Pecci), è solo un pretesto per svelare temi sempre attuali e oggi pienamente affrontati che però, ai tempi in cui il testo vinceva il Premio Pulitzer del 1947, facevano più che mai scalpore.
Il dramma di una psicosi
Quasi come spiata dal buco della serratura, sul palco si delinea uno strano nucleo familiare e domestico in cui si nasconde la polvere sotto al tappeto, si spruzza il profumo sul tanfo e si tengono in bilico suppellettili di cristalli fragilissimi. Come dice un vecchio detto “i panni sporchi si lavano in famiglia” ma -si potrebbe aggiungere- che spesso questi lavaggi sfociano in tragedia. Infatti, il mondo di Blanche, precario come la sua psiche, è un immaginario che vediamo lentamente frantumarsi fino a scivolare nella sua stessa follia. La donna nasconde traumi gravissimi, abusi e verità dolorose.
Vedova di un marito omosessuale, si lascia sopraffare dal dolore per il suo fallimento coniugale e cede alla prostituzione per sanare debiti e colmare vuoti profondi, vive amori malsani nelle sue successive relazioni, tra cui una con un minorenne, che l’allontana definitivamente dal suo mestiere di insegnante d’inglese. Per presentarsi in casa della sorella la donna si cuce addosso un personaggio ingenuo, vive di entusiasmi infantili e frivolezze, ricerca un candore ormai perso, nasconde il dolore dietro agli attacchi di nervi; inorridisce di fronte alla brutalità del cognato, alla violenza che sua sorella subisce dal marito.
Stella si mostra, infatti, una donna tanto passionale quanto dipendente, incarnando perfettamente la sindrome di Stoccolma: sopporta, quasi godendone, i maltrattamenti dell’uomo che ha sposato; lo giustifica e lo perdona, delineando inconsapevolmente un rapporto di reciprocità tra vittima e carnefice che alla fine rimbalzerà dalla coppia di sposi a quella composta da Blanche e dallo stesso Stanley.
La crudeltà dello stupro finale svela tutta la rabbia dell’uomo per quella passione insana nutrita nei confronti della cognata. Il rapporto con Mitch (Stefano Scandaletti), amico di Stanley, rappresenta per Blanche l’unica via di salvezza per riscattarsi da un passato che l’ha “insudiciata”; è l’unico modo per ricominciare una nuova vita entrando in una casa “pulita” come quella dell’uomo che la corteggia timidamente ma è anche fortemente succube della madre. Ma quando anche lui scopre tutte le sue menzogne e la rifiuta umiliandola la donna capisce di essere giunta alla fine.</p>
La fine della corsa di un tram
Questa pietra miliare del teatro e del cinema fotografa sicuramente un’epoca che non esiste più: l’America degli Anni Quaranta, una New Orleans che vive gli anni dell’antiproibizionismo. I complessi meccanismi psicologici dei protagonisti si snodano in una società sull’orlo di una crisi, della guerra e della miseria, costruita all’indomani dei ruggenti anni Venti e alla vigilia del conflitto mondiale.
La prospettiva di un futuro catastrofico è, tuttavia, costantemente contrastata dall’esaltazione dell’effimero e dalla finzione. È questo un quadro evidenziato dal tessuto sociale incarnato dagli amici della coppia e interpretati da Massimo Odierna, Erika Puddu e Giorgio Sales.
Gli attori che completano il cast di questo classico intramontabile rappresentano il piano d’ascolto ideale della vicenda narrata dal testo di Williams. Poche battute e gesti incisivi restituiscono perfettamente il contesto domestico e sociologico: le serate passate a giocare a carte in una nube di fumo tra bottiglie di birra e sigarette, scene di rapporti sessuali rubati e consumati voracemente, senza delicatezza. Le luci sul tavolo da gioco accecano per poi farsi più fioche sulla camera da letto, creano giochi d’ombra negli interni della casa dietro a pannelli e separè.
Le scene più crude sono amplificate dalla musica che sembra gridare insieme alla protagonista durante i suoi deliri. Si percepisce una precarietà di base intrinseca, un vivere alla giornata senta troppe riflessioni, seguendo gli istinti, dimenticando i valori. Forse sta proprio in questo l’attualità e la bellezza del testo di Williams: una vita vissuta senza pensare; si vive, o meglio, si sopravvive, senza porsi una meta precisa, costruendosi un mondo immaginario, idealizzato, fatto di desideri. Un po’ come durante una corsa in tram, una breve pausa dalla corsa frenetica della vita, un momento di sogno ad occhi aperti. Almeno fino al termine della corsa.