Prosa
UN TRAM CHE SI CHIAMA DESIDERIO

CORTO CIRCUITO

CORTO CIRCUITO

Non un racconto di fatti ma un percorso nella memoria per sanare un corto circuito mentale. E magari portare a un risveglio. Le luci in platea sono accese. I mobili sono non-mobili ma appigli per fari, proiettori, casse acustiche, microfoni, diffusori audio. Il tempo non è definito ma appare mescolato, anzi frantumato. Ferito. Sanguinante. Come l'anima dei protagonisti.

A narrare la vicenda un dottore, lo psichiatra che ha in cura Blanche, internata in manicomio. Egli descrive il luogo e il tempo della vicenda al punto che pare di starci, di vedere e sentire: odori, rumori, luci, suoni, musiche, riflessi che si riverberano nell'anima di Blanche. Presenta i personaggi e, quando essi entrano in scena, ne riferisce i dialoghi mentre loro restano muti e assenti, colti in una dimensione altra che è la mente di Blanche, il suo baule di ricordi, le circostanze che l'hanno minata, disgregata, polverizzata. Ferita. Come feriti sono anche tutti gli altri, eccetto il dottore, estraneo al contesto, col suo abito grigio e la sedia di pelle girevole. “Non c'è un solo personaggio che non sia ferito, rotto, spezzato. A tutti manca un qualcosa, è come se nella loro incompiutezza ci fosse il senso del vivere”.

La vicenda prende il via ma non assistiamo a un plot lineare: è la massa tumultuosa dei ricordi di Blanche che stiamo dipanando per ripercorrere le vicende che l'hanno portata alla follia. Realtà e immaginazione si confondono e si stemperano l'una nell'altra: non è fondamentale distinguere quello che è successo oppure no, quanto piuttosto quello che si ricorda e che costituisce quel passato su cui si basa il presente. Blanche è sul punto di disgregarsi, le parole del dottore la lasciano indifferente, come se non le udisse. È molto scossa, le mani malferme, la voce che trema, a momenti al limite dell'isteria. Quello che il narratore riferisce non accade in scena, come se fosse un tentativo a vantaggio del pubblico di “ambientare” il comportamento del personaggio. Blanche è devastata dal suo passato, le morti dei cari l'hanno lacerata al punto che i funerali li ricorda come momenti di pace se non addirittura di festa.

Blanche indossa pantaloni neri morbidi e maglia bianca aderente senza reggiseno, sobria eleganza che sottende raffinata eroticità. Stanley indossa una striminzita maglietta con la faccia di Marlon Brando sui muscoli pompati a forza di flessioni e sollevamenti, cambia tre magliette di diversi colori ma con la medesima immagine. Stanley è animalesco, classifica le donne sessualmente, il sesso è un chiodo fisso piantato nel cervello. Stanley: violento, selvaggio, quasi scimmiesco, con un che di primitivo. Stanley che parla con un accento velatamente straniero, seppure nato e cresciuto in America: evidentemente ha assorbito la cadenza polacca dei familiari. Però è più orgoglioso di essere americano lui degli americani veri, al punto che la tutina per il figlio ha sul petto una vistosa bandiera americana. Stanley si sente americano al punto che, sicuro di sé e dei propri comportamenti in modo incrollabile, balbetta nel proclamarsi “americano”, svelando le crepe nel muro granitico delle certezze che urla e che impone con forza brutale agli altri prima che a sé stesso. (Persino le stelle dell'abito di Stella assomigliano a quelle della bandiera americana invece che a quelle in cielo.) Stanley si passa la lingua sulle labbra con chiaro intento, caccia fuori un pezzo di lingua ogni volta che pronuncia la elle finale della parola “Laurel”, città da cui provengono moglie e cognata. Tutto è sessuale in lui, anche il solo appoggiarsi all'asta del microfono, sempre con il pube proteso in avanti a svelare i genitali sotto i pantaloni di maglina.
Il mondo di Stanley e Stella è un mondo di brama sessuale, di istinti non filtrati dalla ragione, di muscoli, di carni nude, bianche, tremule, esibite senza pudori me neppure con compiacimento. Un mondo di rumori assordanti. Un mondo di sopraffazione dove il debole soccombe al forte, rectius dove il debole diventa succube del forte.

Blanche è confusa, inebetita, raggelata esteriormente, squilibrata interiormente in questo “reality show” dove pare capitata per sbaglio e da cui non riesce a uscire, uno show ossessivo e ossessionante, martellante di luci e suoni senza tregua, che copre le voci di fuori e di dentro.
Il letto ricorda quello di Medea, letto-ring di assi e neon: luce, ferro, legno. Luogo di scontro. Eppure per Blanche “ci sono cose che accadono al buio tra un uomo e una donna che fanno sembrare il resto privo di importanza”. Ma qui non c'è mai buio e neppure privacy: mancano le porte e le tende lasciano passare parole e rumori, oltre che ombre eloquenti.

Blanche è decontestualizzata  rispetto agli altri. I suoi ricordi non hanno agganci materiali, praticamente non ci sono oggetti di scena, neppure quelli di cui si parla. I confronti, sia a due che a tre, si svolgono sempre intorno a un tavolo rotondo: tutto il resto ha spigoli, angoli, lati separati da punte acuminate e respingenti. Quel tavolo rotondo, luogo di incontri e scontri, luogo di ricordi e di emozioni, anche devastanti. Quel tavolo rotondo appoggio di un proiettore come un faro nelle tempeste, che gira e illumina, indica e svela, anche implacabilmente: senza vergogna, senza ipocrisia. Ogni parola produce una ferita nell'altro, ogni duetto diventa un duello.

Mitch è timido, compresso, schiacciato dalla presenza della madre malata a casa e assorbito fuori dalla personalità di Stanley. Indossa una maglietta con la faccia di Obama: siamo in Louisiana, tra neri e piantagioni. I capelli sono scomposti, la barba trasandata. L'altra faccia di questo Sud è Stella, maglietta con faccia di Marilyn Monroe e slip aderentissimi che simulano il tessuto jeans.
Le voci si confondono coi suoni registrati, si fondono con la musica in un tutt'uno amplificato, echeggiante, claustrofobico. Si percepisce la volontà di considerarsi in un mondo ordinario che invece è ferinico: domina un senso di incubo incombente, dove addirittura la follia appare un approdo consolante a un viaggio insopportabile. Il plot passa in secondo piano a vantaggio di uno scivolamento mentale. Lo sguardo di Stanley è folle, allucinato. Blanche ripercorre il momento che l'ha definitivamente travolta, stravolta. Il panico la assale. La barriera è caduta, Blanche affronta il suo passato per quello che è stato davvero e non per quello che lei vuole credere in funzione consolatoria e salvifica. La causa del suo male è dentro, senza un Dio a cui affidarsi neppure per chiedere pietà. Per Blanche esistere è stato farsi vedere, ammirare, lasciarsi amare, anche se poi l'amore è diventato solo fisico, sesso con sconosciuti: ma comunque ha incarnato il senso del suo esistere. E del suo inevitabile distruggersi. Del suo perdersi senza ritorno.

Blanche sta in piedi, si muove poco e poco gesticola. Deve sedersi sulla poltrona del dottore per riuscire a trovare nella sua memoria la seduzione del ragazzino, accettandola come innocente e inevitabile. La luce fissa sugli occhi la confonde. Intanto si ascoltano le note del Rosenkavalier. Sconvolgente e struggente: quei valzer consolanti sugli amori passati della Marescialla di Strauss, accettati con nobile e sereno distacco, quell'amore passato che ha lasciato nel presente un disincanto autunnale. L'opposto di quel che ha vissuto e sta vivendo Blanche, occupata da uno sfinimento assoluto, nevrastenico. Blanche è impazzita per quello stesso passato di amori lontani che invece addolcisce i ricordi della Marescialla.

Nel secondo atto Mitch prova ad aderire ai desiderata di Blanche, a quello che lei dice e/o crede di volere; veste gli stessi colori di prima ma si è “borghesizzato” nel tentativo di avvicinarsi a Blanche: i capelli impomatati e lisciati con la scriminatura, la barba curata, il vestito con la piega, le scarpe che a prima vista sembrano le stesse Nike di prima ma no, sono mocassini coi lacci che poi si toglierà con rabbia (gesto che ha visto a fare a Stanley più volte) restando a piedi nudi (Stanley invece coi calzini). La gentilezza di Mitch la porta a ricordare il primo bruciante amore per un giovane omosessuale, la presa di coscienza, il suicidio di lui con la pistola: un senso di abbandono insopportabile. Quello sparo che ha spento le luci e riportato il mondo in perenne penombra, uniforme e grigia, “l'amore è luce accecante in un mondo prima in penombra”. Anziché rassicurata, Blanche appare sempre più minata: non basta Mitch, la presenza di Stanley è soverchiante, destabilizzante. Il richiamo fisico insopprimibile. Ripetuti sbalzi di umore, scatti nella voce e nei gesti, sguardo perso. La luce ora è implacabile, dura, svela la realtà senza infingimenti. Invece Blanche vuole magia, non realismo. Blanche fragile e completamente sola. Soprattutto ora, a casa di Stanley e Stella. Di fronte a quel rapporto matrimoniale basato sulla violenza fisica e verbale, Blanche insiste nel cerca una pura, innocente compagnia. Grida “al fuoco” mentre la musica rock diventa assordante e assorbe ogni parola nel momento che forse costituisce l'acmè di uno spettacolo bellissimo e fortissimo. “La crudeltà intenzionale è imperdonabile”: nel suo ricordo lo stupro non c'è, residuando il tentativo di Stanley di possedere il corpo inanimato di Blanche eppoi il guizzo passionale di lei che si mette sopra e Stanley che, sopraffatto per la prima volta, si lascia dominare. Condannando Mitch a una masturbazione senza coito. Le grida scimmiesche di Stanley si confondono con il pianto del neonato di Stella che lancia coriandoli dal pancione nella vasca da bagno di teli di nylon tenuti su con le pinze.

Nel finale Blanche è in pigiama e mutande, cullata fra le braccia del dottore seduto sulla poltrona girevole, quel dottore gentile a cui Blanche volentieri si consegna: “mi sono sempre fidata della gentilezza degli sconosciuti”. Blanche pare addormentata: vogliamo credere che si risveglierà risanata. Ancora la musica di Rosenkavalier. Ma ora il passato di Blanche appare maggiormente placato. Il corto circuito mentale non produce più tensioni e strappi, la memoria ha esercitato la sua funzione terapeutica. Blanche è vicina alla Marescialla, finalmente: il passato alle spalle, il futuro davanti. Seppure autunnale. Viale del tramonto.

Latella non lascia indifferenti: che lo si apprezzi oppure no, è innegabile il suo genio registico. Qui declinato anche nella scena fissa di Annelisa Zaccheria, nei costumi di Fabio Sonnino, nelle luci di Robert John Resteghini, nel suono di Franco Visioni, nelle musiche, nella traduzione di Masolino D'Amico (per citare un fatto: lascia la differenza tra “virgo” e “vergine”, segno zodiacale e condizione fisica/sociale, un rilievo ben forte in americano ma non nell'italiano che usa “vergine” in entrambi i casi). Genio registico declinato grazie a superbe prove attoriali. Giganteggia Laura Marinoni come Blanche, ma non sono da meno Vinicio Marchioni (Stanley), Elisabetta Valgoi (Stella), Giuseppe Lanino (Mitch), Rosario Tedesco (dottore) e Annibale Pavone (vari ruoli sui tacchi e maglia bianca pagliettata con teschio in stile Damien Hirst).

Pubblico numeroso all'inizio e assottigliato dopo l'intervallo, applausi entusiastici alla finale.

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