Prosa
UN TRAM CHE SI CHIAMA DESIDERIO

Un desiderio che si chiama Teatro

Un desiderio che si chiama Teatro

I teatri stabili, si sa, concentrano spesso la loro attenzione sui cosiddetti classici, ovvero quei titoli che appartengono, in un modo o nell'altro, all'immaginario collettivo di un pubblico vasto, che si riconosca in ciò che va ad assistere, pur nell'impegno culturale che un certo tipo di teatro impone. Un ghiotto esempio è il capolavoro di Tennessee Williams, datato 1946, che dalla prima edizione viscontiana in poi attrae gli spettatori, molti, ammettiamolo, anche memori della straordinaria versione cinematografica di Elia Kazan che vedeva protagonisti Vivien Leigh e un indimenticabile Marlon Brando. Di ciò hanno sicuramente tenuto conto allo Stabile di Modena quando hanno deciso di produrre l'ultimissima versione teatrale per la quale è stato chiamato come direttore il regista Antonio Latella, che, anch'egli conscio della popolarità del testo, si sarà di sicuro posto il problema di come far accettare ad i suoi sostenitori radical questa sua incursione nella drammaturgia popolare. Lambiccandosi il cervello ecco che la soluzione è arrivata: operare su Williams la stessa contorta e supponente mortificazione perpetrata tre anni or sono a "La Trilogia della Villeggiatura" di Carlo Goldoni, colpevoli, entrambi gli autori, di essere troppo popolari tra il pubblico meno snob. L'idea è questa: su di un palco ingombro di mobilio simile a quello che l'Ikea vende perché sia poi tinteggiato, ovvero l'arredo che evoca quello di casa Kowalsky, il medico che a fine dramma traduce Blanche alla casa di cura, ripercorre la storia della donna introducendola in una sorta di psicodramma, del quale fanno parte la sorella Stella, il cognato Stanley ed il suo amico Mitch, corteggiatore della donna. L'assenza degli altri personaggi viene colmata dallo stesso dottore e da un altro personaggio (dalla locandina apprendiamo trattasi dell'infermiere) che, come in una mise en espace, ci raccontano la storia di quel rapporto morbosamente dilaniante consumato all'interno dell'appartamento ai Campi Elisi di New Orleans, sottolineando le didascalie dell'autore come indicazioni alle quali però i personaggi si sottraggono per far vivere le loro emozioni in maniera glacialmente sospesa. Un progetto ambizioso ma artificioso, questo di Latella, che volutamente tiene le distanze da qualsiasi concessione alla religiosità di un testo al quale il regista volutamente si antepone, schiacciando in un sol gesto autore, pubblico ed attori, tanto da far diventare protagonista della vicenda il dottore, suo alter ego, interpretato infatti dal suo attore cult, il bravo Rosario Tedesco, che manipola il personaggio di Blanche, al quale da volto la straordinaria Laura Marinoni, di una bravura sconvolgente, che confermandosi una delle tre o quattro migliori attrici in attività in Italia, nonostante la furia devastante del regista,  riesce a dare il massimo dell'apporto interpretativo che tale operazione raggelante richiede. C'è da chiedersi del perché il talentuosissimo Latella abbia ancora una volta così rinnegato il teatro ed il pubblico, ma gli applausi e le risa dei giovani attori che riempiono la sala della prima, in contrasto con la sonnolenta, nei più benevoli dei casi, reazione degli altri spettatori, ci disarmano ancor di più. Dov'è la forza di un testo che scavava l'anima di un'America che, stordita dai trionfi del secondo dopoguerra, faticava a trovare un'identità culturale, dove sesso e violenza rappresentavano, già da allora, un linguaggio comunicativo disperato. Invece vediamo Stanley (Vinicio Marchioni) che indossa una serie di t-shirt con l'immagine di Marlon Brando (!), che parla con improbabile accento polacco (ma il testo non dice che è nato in America?), e che, invece di violentare Blanche, la seduce teneramente, salvo, poi, essere lui aggredito sessualmente dalla donna, colta da una sorta di transfer autodistruttivo, mentre Stella (eccellente Elisabetta Valgoi), sullo sfondo, dal suo pancione di gestante, estrae coriandoli. Mitch (il bravo ed intenso Giuseppe Lanino) dal canto suo, espone bicipiti e fisicità non certo da impacciato quasi obeso, e, una volta scoperta la vera identità della donna ( a proposito, dov'è finito il monologo in cui Williams fa raccontare a Blanche la sua storia di sesso e morte?) invece di aggredirla per essere poi cacciato da lei, fugge via di sua spontanea volontà dove un goffo tentativo di autoerotismo (un simbolo delle ragioni registiche?). Naturalmente, con ogni probabilità, questa sarà l'unica, o una delle poche, recensioni negative alla regia di questo spettacolo, per le ragioni già espresse sopra. Noi ci auguriamo, però, che questi tête-à-tête modaioli tra registi e critici possano un giorno lasciare spazio ad un teatro senza effetti e trovate, ma che possa esprimersi con la forza di attori bravi come quelli coinvolti in questo spettacolo, e che il pubblico non venga escluso da tale vicenda, magari evtando di sparargli aggressivi quanto inutili fasci di luce dai proiettori puntati contro di lui.

Visto il 28-02-2012
al Argentina di Roma (RM)