Arduo era il compito di Antonio Latella, emergente regista campano che piano piano si sta imponendo sulla scena teatrale italiana, spesso eccessivamente legata ai suoi maggiori interpreti e non ancora influenzata dalla logica della rottamazione. Di mezzo c'era un film ingombrante e di successo, che aveva fossilizzato l'immagine di Stanley e Blanche nei volti indimenticabili di Marlon Brando e Vivien Leigh. Uno scarto da quella che per molti è stata una delle commedie cinematografiche di maggior successo del dopoguerra era tanto necessario quanto arduo da portare in porto. Nella rilettura teatrale di “Un tram che si chiama desiderio”, dramma scritto dal noto commediografo americano Tennessee Williams, Latella sembra in vario modo lontano da quel passato; dalla mente geniale che aveva inventato personaggi indimenticabili, ispirato dalle poesie simboliste di Hart Crane e dalla devastazione provocata dalla malattia dell'amata sorella.
Nel gennaio del 1946 Williams tornò a New Orleans e iniziò la stesura di un'opera che per certi versi avrebbe modificato il modo d'intendere la drammaturgia teatrale e cinematografica. Williams poteva contare su qualcosa che è possibile definire in modo blando come doppia personalità artistica. Infatti, egli riusciva a descrivere in egual misura tanto personaggi maschili quanto personaggi femminili. Nei suoi frequenti incontri con la gente, lui era solito fagocitare i loro pensieri, le loro emozioni, e soprattutto le loro intime disgrazie .
Rivisitare, reinterpretare, smontare tale capolavoro, sarebbe stato comunque difficile, ma quel che pare - a chi scrive - è che Latella abbia mancato di molto il bersaglio. Se distanza e reinterpretazione doveva essere, se la fiducia che Crane iniettò in Williams doveva essere decostruita, allora non si sarebbe mai dovuto fare apparire in scena Stanley Kovalski (Vinicio Marchioni) con una collezione di magliette raffiguranti Marlon Brando. Li siamo tornati nel film e il confronto è stato impietoso e autodistruttivo, se è vero che ha generato risatine sarcastiche tra il pubblico. Se il dramma doveva essere quello di Blanche (Laura Marinoni), allora lo si doveva descrivere attraverso una trasformazione del personaggio che conducesse lo spettatore verso la definizione di quel dramma intrapsichico. Invece, la pur bravissima Marinoni fatica non poco a restituire il quadro di una donna che vive nell'autoflagellazione e nell'utopia dell'inganno, fino al punto di rimanere vittima lei stessa delle sue menzogne. Non convince neppure il ribaltamento del piano narrativo (la mente di Blanche come spazio scenico!), utilizzato più come grimaldello per presentare lo spettacolo alla critica di quanto se ne senta la presenza sul palco. Se Mitch (Giuseppe Lanino) doveva essere il personaggio puro della commedia, quello che viene deriso, preso in giro, al limite, sbeffeggiato, allora non si capisce perché a tratti ci si è spinti fino a ridicolizzarlo, renderlo macchietta di se stesso. Il suo gesto autoerotico in luogo del rifiuto verso Blanche non sembra compensare il vuoto generato dalla reinterpretazione lacunosa del rapporto tra i due.
Se si voleva in qualche modo ricostruire il realismo scenografico e rifiutare quello testuale, così come lo stesso Williams suggerisce attraverso la celebre frase di Blanche che, colta di fronte all'assurdità delle sue affermazioni, afferma:”Non voglio realismi”, allora non si comprendono i motivi degli innumerevoli momenti di esasperazioni personali e panico hard-rock qua e la distribuiti nel corso delle quasi tre ore di spettacolo. Insomma, il procedimento attraverso il quale Latella ha restituito il simbolismo di Williams, distribuendo fisicamente sullo spazio scenico ciò che la mente di Blanche suggerisce, così come manovrata dall'onnipresente dottore-narratore-suggeritore (Rosario Tedesco), non convince al punto che il pubblico abbandona la sala tra il primo e il secondo tempo quando non stenta perfino ad applaudire. Latella voleva trasformare una commedia familiare conclusasi in tragedia in un dramma psicologico dove la protagonista femminile avrebbe dovuto spiegare il percorso che l'ha condotta alla distorsione della realtà. Per far questo, la scenografia illumina se stessa (e la sala, creando null'altro che fastidio nel pubblico), non è illuminata, si muove su spazi condivisi assieme a cavi e congegni elettronici simboleggianti l'ambiente psichico nel quale si consuma il dramma di una donna privata del suo patrimonio e costretta ad elemosinare vitto ed alloggio dalla sorella. Ma il gioco non regge. E non regge perché quando Blanche se ne va dalla scena, quelli che rimangono sembrano ben più al di là della soglia della pazzia. Proprio quello che Williams aveva evitato, lasciandoli tutti immobili, inermi a guardare la loro sorella, cognata e amante allontanata dalle mani del dottore tanto dalla loro casa quanto dalla loro memoria.