Un orologio senza lancette che ricorda quelli de Il posto delle fragole di Ingmar Bergman, le iscrizioni sulla parete ed una biblioteca ispirata probabilmente alla Biblioteca di Babele di Jorge Luis Borges (pietre e libri...), le penne che non scrivono, un'atmosfera vagamente durrenmattiana ove non kafkiana che via via accentua le nuances tetre e criptiche: raccogliamo volentieri le prime avvisaglie del simbolismo invero spinto nel lavoro di Glauco Mauri, disseminate come altre in giro per il palcoscenico, perchè hanno il pregio di non essere subito evidenti, e perciò di formare un puzzle metafisico di cui si scopre man mano non solo la soluzione, ma soprattutto il fatto stesso, che ci si trovava di fronte ad un puzzle, cosa all'inizio per nulla evidente.
Una pura formalità, il film di Giuseppe Tornatore del 1993, un esercizio di stile ispirato al racconto di Ambrose Bierce Accadde al ponte di Owl Creek, si presta ad essere riprodotto in teatro grazie alla sua caratteristica unità spazio-temporale (che sarà strano a dirsi, svelato l'arcano al termine della storia), in un continuum in cui il tema della incessante ricerca di una Verità che è intimamente legata ad un passato da cui non si può fuggire, viene affidato agli elementi scenici convincenti di Giuliano Spinelli, i quali collaborano ad interpretare un percorso di disvelamento che parte sembrando tracciare la linea del giallo, ma che termina con un colore indefinito nel quale tutto si dissolve.
Il commissario senza nome di Glauco Mauri (chiamiamolo anche noi Leonardo da Vinci) è un perfetto padrone di questa casa dei misteri, trattenendosi perfino ancorato sulla terra con una presenza degna di celebri ed illustri colleghi-personaggi letterari alla Nero Wolfe, e gli inserti psicologici (lo scrittore Onoff non parla di amore perchè "si prova un grande disagio ad essere amati") contribuiscono ad allargare lo spazio dell'immaginazione di fronte ad una storia che da materiale diviene sempre più rarefatta, si scioglie e dall'unità iniziale trapelano gli atomi singoli che la compongono (come quel saper “distinguere tra crimine e reato”), mentre lo stesso scrittore (Roberto Sturno) approfondisce col tempo la sua recitazione policromica nella pur continua colorazione disperata, e fra i due è da apprezzare una intesa di grande risultato.
L'idea del “punto di smistamento” trasformato in uno squallido commissariato aiuta ad immergersi sia nella circostanza attenuante del bisogno universale degli esseri umani, prima o poi, di confessare (prima a se stessi e poi agli altri) percorrendo fino in fondo il proprio percorso di verità, sia nell'annullamento delle differenze, con un certo principio del perdono ("Ma in fondo è una brava persona anche lui... qua siamo tutti, brave persone"), come se appunto, una volta che le anime abbiano elevato a coscienza ciò che è accaduto al corpo, le due rette parallele potessero davvero incontrarsi, dopo un percorso infinito, in un punto improprio. La scrittura originaria tuttavia non aiuta a creare le condizioni di un finale che sostenga l'impalcatura predisposta con bravura dalla compagnia, poiché nonostante l'agnizione giunta con un colpo di pistola, le interpretazioni metafisiche non soddisfano appieno la lunga attesa, e si deve necessariamente rimanere sospesi in quella comune incomprensione degli eventi in cui gli stessi interpreti sembrano bagnarsi, come se stesse continuando quella pioggia, che da esteriore, diviene sempre più interiore ("...e adesso?").