Al Regio di Torino sono andati in scena due atti unici proposti in un insolito dittico: “Una tragedia fiorentina” di Alexander Zemlinsky e “Gianni Schicchi” di Giacomo Puccini.
Una tragedia e una commedia a confronto che hanno però molti punti in comune: la medesima ambientazione fiorentina e unità di azione, l’essere state composte nello stesso periodo (rispettivamente 1917 e 1918), un baritono protagonista e la presenza della morte, seppur vista da angolazioni diverse.
Zemlinsky compose l’opera a partire da un testo incompiuto di Oscar Wilde e narra la storia di un commerciante che, consapevole dell’adulterio della moglie, dopo una serie di convenevoli che ritardano la catastrofe, strangola il nobile rivale sotto gli occhi della donna. La musica ha forti accenti straussiani ma c’è anche molto Mahler negli accenni di valzer o nelle impennate vitali ed esprime l’inquietudine viennese di inizio secolo in un intreccio visionario di amore e morte, indugio contemplativo e violenza minacciosa.
L’opera procede in un crescendo di tensione drammatica e musicale che non conosce né stasi né cadute ma ha un finale a sorpresa che fa virare la tragedia in un improbabile happy end: la moglie infatti, davanti al cadavere dell’amante, dice al marito “Perché non mi hai detto che sei così forte?“ ed egli replica “Perché non mi hai detto che sei così bella?” e l’opera si chiude con un bacio di riconciliazione.
Vittorio Borrelli, autore della regia della nuova produzione, adotta un tragico epilogo e chiude l’opera con un bacio di amore/morte molto wildtiano in quanto Simone bacia Bianca con voluttà, ma poi la uccide. Sorpresa nella sorpresa! Tale scelta registica fa però venire meno il coup de théâtre previsto dal libretto che, se ben sfruttato, illuminerebbe di una luce diversa l’ambiguo rapporto di coppia. Per il resto la regia sottolinea la crudeltà sottile di Simone, figura ironica e beffarda ma decisamente sadica, che sembra giocare come un gatto col topo per tutta la durata dell’opera con i due amanti. E lo spettatore è consapevole del gioco in quanto fin dal preludio vediamo il marito di schiena in veste da viaggio osservare dall’esterno le effusioni degli amanti con un voyeurismo morboso che ritorna anche nelle scene successive.
La scena di Saverio Santoliquido e Claudia Boasso ambienta la vicenda nei primi anni del ‘900 in un’elegante interno jugendstil caratterizzato da alte librerie cineree piene di libri che costituiscono le quinte laterali, mentre sullo sfondo, oltre la parete vetrata, videoproiezioni lasciano intravedere la pioggia battente o una decadente luna piena.
L’ ambiente in penombra, giocato sui grigi e sui neri (decisamente efficaci le luci di Vladi Spigarolo), è adatto a una tragedia a porte chiuse e comunica un’atmosfera soffocante e morbosa, peraltro accentuata dal rutilare di stoffe preziose che il mercante srotola sotto i nostri occhi e dalla gestualità della coppia che trasuda odio, scherno e dominazione, ma soprattutto decadente erotismo.
Bianca, in una lunga camicia da notte di raso che ne svela il corpo candido e opulento, si muove flessuosa ed emana una carica erotica tale che, oltre ad attrarre l’amante, scatena la progressiva violenza di Simone che l’adorna con stoffe preziose lasciando prefigurare uno strangolamento, per poi scagliarla a terra con violenza mista a disprezzo.
Tre i protagonisti del visionario triangolo di amore e morte. L’opera è quasi completamente incentrata sulla personalità e sulla voce di Simone di cui Tommi Hakala restituisce un ritratto intrigante; la voce baritonale di timbro chiaro risulta armoniosa nei momenti di squarcio lirico e convince per le doti di fraseggio ma, penalizzata da una direzione orchestrale piuttosto pesante, difetta di potenza nei momenti di massimo scarto drammatico. La Bianca di Angeles Blancas Gulín ha una fisicità prorompente e una carica erotica forte adatta ad esprimere un languore decadente; se ne apprezza la fluidità del movimento scenico non solo nelle scene di seduzione ma anche nello strisciare a carponi per terra e il canto è sufficientemente duttile: carico d’odio e scherno nei confronti del marito, carezzevole e sensuale per l’amante. Zoran Todorovich è un Guido Bardi sprezzante dall’atteggiamento annoiato ma il personaggio amoroso vorrebbe una voce dalla timbrica più suadente.
Stefan Anton Reck imprime fin dalle prime battute una lettura tesa e scorrevole volta a sottolineare la tensione drammatica e lo slancio sinfonico con una progressione ritmica serrata, particolarmente efficace nel tradurre una musica che si avvolge su sé stessa come una spirale implacabile. La direzione è però troppo intenta ad esaltare l’esplosione sonora e gli accenni straussiani “di superficie” e risulta meno efficace nel tratteggiare gli aspetti più visionari e febbrili, il disegno polifonico prezioso e i momenti d’indugio suadente.
Anche Gianni Schicchi ha un’ambientazione novecentesca–liberty e vede un interno borghese tappezzato di damasco rosso, dove troneggia un grande letto con tanto di ceri e finestre da cui s’intravede di sbieco una veduta di Firenze. La regia presta particolare attenzione al movimento scenico dei parenti che si muovono vorticosi ma sempre coesi, colti nella loro avidità e miseria morale, e ha qualche buona intuizione come quando durante il preludio orchestrale li vediamo intenti a sorseggiare il caffè tutti contenti della morte di Buoso, ma, dopo aver scorto il pubblico in sala, assumono un atteggiamento ipocrita e intonano la loro litania. Per contrasto ai parenti serpenti si stagliano i personaggi “positivi”: i due innamorati colti nella loro giovanile freschezza e Gianni Schicchi, popolano rustico, combattivo e concreto.
Nella recita a cui abbiamo assistito la parte di Gianni Schicchi è stata interpretata da Carlo Lepore al debutto nel ruolo; il suo Schicchi è divertente senza scadere nella macchietta, forse è un po’ troppo bonario, più padre amorevole che cinico popolano, ma ci piace ascoltare nel ruolo una voce giovane e vivace dotata di grande musicalità e bel fraseggio che si presta ad imitare le inflessioni del vecchio Buoso rimanendo sempre salda e possente. Eccellente la coppia dei giovani innamorati: Serena Gamberoni è una Lauretta fresca, ma non infantile, la voce si è fatta più rotonda e luminosa, se ne apprezza la linea curata e un fraseggio divenuto più maturo che depura “O mio babbino caro” di ogni facile ovvietà. Francesco Meli infonde a Rinuccio giusta italianità di squillo e come sempre si loda la luminosità timbrica e la perfetta dizione che rende lo stornello vibrante e autentico.
Dei personaggi minori convince, oltre al puntuale movimento scenico, una verve comica che fa presa immediata sul pubblico. Silvia Beltrami è una Zita divertente ma vocalmente non sempre a fuoco. Bene il Simone di Gabriele Sagona. Corretti gli altri, in particolare la Nella di Maria Radoeva, il Gherardo di Luca Casalin, la gradevole Anita Baiocco nel ruolo di Gherardino. Fabrizio Beggi è Betto, Marco Camastra è Marco, Laura Chierici è la Ciesca. Alessandro Busi è un Maestro Spinelloccio misurato e un efficace Ser Amantio.
Concludono adeguatamente il cast Ryan Milstead (Pinellino), Giuseppe Capoferri (Guccio) e il macilento Buoso di Paolo Vettori che al momento degli applausi esce di soppiatto dal letto scatenando l’allegria generale.
Della direzione di Stefan Anton Reck ci è piaciuto il taglio fluido e moderno e la cura dello strumentale. La sua lettura sembra essere più orientata a sostenere lo sviluppo narrativo ed il gioco scenico che non nel valorizzare le ragioni del canto, ma in sede teatrale funziona.
Grande successo di pubblico per un dittico particolarmente felice che merita la riproposta.