Singolare personaggio novecentesco, Eduardo De Filippo, che travalicando i confini è assurto direttamente a “classico” assumendo l’aureola di mito ancora da vivo.
E’ uno di quegli autori che non ha bisogno di anniversari (quest’anno ricorre il trentennale dalla morte) per venir ricordato. Ed infatti il regista Alessandro D’Alatri non fa accenno a questo, bensì a gusti personali raccolti dagli attori e produttori de La Pirandelliana Gianfelice Imparato e Valerio Santoro, nel riferire perché ha allestito “Uomo e galantuomo”, spettacolo che ha debuttato nel 2013 vincendo il premio “Miglior spettacolo” al festival di Borgio Verezzi.
E’ conosciuto per nome Eduardo (pur sapendo bene il cognome) come se la cosa fosse ovvia e naturale, e come pochi altri ha messo la propria persona a simbolo del suo teatro e della sua arte: oltre ad essere l’autore (e capocomico), era anche l’Attore per eccellenza delle sue pièces. E solo come Totò tuttora è vivo in quel ricordo che lo lega alla sua unicità, a quel suo essere sempre uguale a se stesso pure in personaggi sempre diversi, che solo lui poteva fare in quel modo e che, perciò, lo allontanano dal concetto di “maschera”. Questo rende particolari le pièces eduardiane: o le rispetti o le cambi completamente facendo dimenticare Eduardo. Le vie di mezzo sono difficili perchè il suo ricordo è ancora fresco.
In “Uomo e galantuomo” D’Alatri ha scelto la prima opzione, proponendo una pièce tradizionale, su scene essenziali di Aldo Buti, con un cast di 10 attori, tra cui un Gianfelice Imparato magistrale nel ruolo del capocomico Gennaro. Non solo lo interpreta, ma addirittura ricrea un tipo comico. Giovanni Esposito gli fa da spalla; Antonia Truppo è la fidanzata-attrice incinta e Valerio Santoro veste i panni di Alberto che ospita la compagnia nell’albergo di Bagnoli ed a cui è legata la seconda trama dell’opera.
Nel testo infatti ci sono due commedie, la vicenda dei guitti e la storia d’adulterio, unite in maniera tale che l’una serve da contorno all’altra, intrecciandosi nell’equivoco amoroso e poi nella farsa.
Una delle prime opere scritte da Eduardo, “Uomo e galantuomo” ha come riferimento il teatro scarpettiano: personaggi fortemente caratterizzati dei quali viene accennata la caricatura e un ambiente ben preciso che reagisce a quella presenza.
Tra le più incisive esperienze attoriali e drammaturgiche del Novecento, capaci di creare una tensione fra l’idioma natìo e l’italiano, le opere di Eduardo, non sono in “lingua” napoletana, che pochi e autoctoni capirebbero, ma ne hanno l’accentazione dialettale e qualche parola in vernacolo messa qui e lì. Come quella “buatta” che in “Uomo e galantuomo” è fondamentale per la compagnia dei guitti come pentolone, porta-oggetti e protagonista (menzionata ma mai in scena) dell’incidente che occorre a Gennaro facendo poi da contrappunto al resto della storia.
Dopo la felicissima ed esilarante scena metateatrale delle prove di “Malanova” di Libero Bovio, Gennaro inciampa nella buatta ed è costretto ad andare da un medico che si rivelerà essere il marito della fidanzata di Alberto. Si entra così nel vivo della seconda trama. E’ nel secondo tempo infatti che si vira nel pirandellismo, amato dall'autore, per raccontare l’ipocrisia borghese (chi è l’uomo e chi il galantuomo?) e nel quale la finta pazzia viene usata come mezzo per rimangiarsi un’accusa compromettente di adulterio.
Sta all’ironia di Eduardo il pregio di aver saputo giocare sulla commedia con i mezzi della farsa ed agli attori in scena quello di averla ben raccolta.
Le risate sono assicurate.