"Va tutto bene" è uno spettacolo sincero. Quando si parla di grandi temi - vita, morte, amore, amicizia - non è facile scansare la banalità e sorprendere. Dentro ognuno di noi abitano consapevolezze difficili da scardinare e "Va tutto bene" non ha la pretesa di rivelare misteriose verità. Ha la sincera voglia di raccontare una storia familiare traballante che si snoda tra incontri e scoperte con la giusta dose di amarezza e divertimento. E ridere e commuoversi a distanza di pochi minuti non è scontato. Succede quando ci si sente non solo coinvolti, ma anche in qualche modo complici.
Ruggero (Dario Merlini) - l'uomo di famiglia, il padre, il viveur - si è allontanato dalla moglie Annamaria (Alice Francesca Redini) e dal figlio Attilio (Fabio Zulli) per ritrovare la gioia di vivere, ormai sepolta sotto ad uno spesso strato di routine quotidiana a base di silenzi e televisione. Ritrova energia nel Paradise, tra le braccia di Lilly (Vanessa Korn), sognatrice indefessa e ancora ingenuamente capace di vedere del buono intorno a sé. A casa lascia il fragile e timido Attilio a districarsi tra la madre stanca, sbadata e in costante dialogo con i suoi miti televisivi e l'amico Edo (Umberto Terruso) in tensione perenne tra la ricerca del contatto con il proprio io profondo e le pulsioni di mente e corpo. Le cose cambiano quando Ruggero muore "di troppa felicità": Lilly decide di andare a fare visita alla famiglia del suo amante e viene accolta, per una sequela di equivoci, con grande entusiasmo. La nuova situazione mette ogni personaggio - Ruggero incluso, morto chiacchierone ma inudibile - davanti alla propria vita e alle proprie scelte, costringendo ciascuno a fare i conti con passato, presente e futuro.
Il lavoro della compagnia Oyes per costruire "Va tutto bene" nasce da un'idea di Stefano Cordella, che ne ha curato la regia insieme a Daniele Crasti e Francesco Meola. Lo spunto della drammaturgia, elaborata in modo collettivo, è il tema dell'abbandono ma la forza del testo e delle situazioni - che si discostano dall'abbandono arrivando a toccare ambiti molto distanti tra loro - viene dal lavoro svolto dalla compagnia. Si percepisce chiaramente che l'esperienza che vediamo e a cui partecipiamo è frutto della messa in gioco a livello personale degli interpreti, delle loro storie, delle loro vite. Si sente che stanno raccontando qualcosa di proprio e questo fa sentire inclusi. Fa sentire meno soli. E quando ci si sente meno soli si può ridere e ci si può commuovere a distanza di pochi istanti senza paura di sentirsi o sembrare idioti. E alla fine va tutto bene.