Dover parlare di Vangelo in termini critici è assai difficile. Ammesso di prendere come assunto le osservazioni di Wilde sul ‘critico come artista’, dove l’opera d’arte deve essere per il critico un punto di partenza, bisogna sconfinare nell’autobiografico. Ed in questa ‘fascia laterale’ l’opera ed il suo creatore si possono fondere ma anche confondere.
Presentato come spettacolo in forma di concerto a Zagabria, approda al Teatro Argentina nella forma di opera collettiva in prosa. Punto fermo è la parola Vangelo, sulle nostre bocche da oltre 2000 anni che ha forgiato (spesso fuorviato) la nostra cultura. Il Vangelo e l’artista hanno un legame viscerale, tanto quanto quello con la madre nei confronti della quale, attraverso il suo necessario bisogno di affrancamento, si confronta con un dialogo ormai interiore proprio sui temi religiosi, trasformato in omaggio ad un desiderio materno espresso in punto di morte.
Lo spettacolo inizia a sipario aperto con undici sedie disposte sul palco. La compagnia si presenta al pubblico, muta, sovrastata dalla musica di sottofondo incalzante ed ossessiva, fino a quando alla musica si mescola la voce di Delbono, dal fondo della sala. Quello che compie tra platea e palco è un cammino quasi mistico, fatto di pensieri scritti su un foglio, una poesia di Sant’Agostino, una di Pasolini, con attori che proclamano nella loro lingua d’origine. Un cammino dal quale si ristora sedendo tra gli spettatori come un comune fruitore della sua stessa arte. Figure diaboliche a tratti surreali si aggirano sul palco, ora costretti da chissà quale forza, ora in procinto di affrancarsi dalle idee condizionate per nuotare nelle acque di una coscienza libera da schemi. Delbono stimola e scardina i chiodi arrugginiti della memoria liturgica con una lettura tratta da alcuni versi degli apostoli Luca, Giovanni e Marco. E questi versi appaiono sotto una luce diversa, mentre si alternano diversi generi di musica. Solo con questa leggerezza di fondo ci si può ricordare che anche noi siamo inclini al rispetto, ma preferiamo scagliare le pietre piuttosto che tenderle le mani.
Al di la di tutto, sopra ogni cosa, sopra ogni poesia, azione, suono, lo spazio di Pippo è abitato da un concetto. O spettro. Prende il nome di Dio. Dio, così maschile, così infernale. Dio, con il quale ognuno di noi ha un dialogo costante, che erge a risolutore dell’inferno personale. Dio, cercato e mai trovato. Cercato nella malattia, negli ospedale, nelle acque che inghiotte i cadaveri dei rifugiati. Delbono rincara la dose e mentre sullo schermo l’acqua si mostra in tutta la sua calma e bellezza sotto i riflessi della luna, in sala è presente un rifugiato con la sua toccante testimonianza. Ed anche qui, Dio è lontano, nel regno dei cieli ed attende gli ultimi mentre noi, seduti in poltrona, probabilmente siamo intenti a riflettere su cosa ognuno di noi potrebbe fare ma che spesso, alla fine, non muove. Ed ecco che i lacci con cui alcuni attori (e Delbono stesso) si legano al muro, diventano ancora una volta le nostre stesse costrizioni, mentre il Dio che noi immaginiamo, via via che prosegue lo spettacolo, svanisce. In contrasto al Dio dipinto nella sua totale mascolinità, Delbono cerca icone dissacratorie, spingendo la ricerca verso il femminino sacro. Ed ecco che Gesù, chiamato a gran voce, si materializza sul palco con tanto di parrucca ed occhiali anni 70 ed inizia ad intonare una canzone di Alan Sorrenti. Sul muro, proiettate immagini sacre che si mescolano come carte da gioco. Un momento che i credenti potrebbero definire blasfemo ma che centra in pieno il concetto.
Pippo ci tiene a far accendere le luci in platea mentre grida ‘viva la libertà’ e si agita, come se fosse ad un concerto dei Rolling Stones. Il suo testamento (forse) è la voglia di comunicare la difficoltà nell’affrontare la sua malattia e le conseguenze. Di sicuro lo spettacolo lascia il segno, lascia il silenzio di una platea in parte attenta in parte totalmente assente. O probabilmente è annoiata. Ma anche la noia, in questo caso, è un urlo lanciato verso la miopia di una società che non è capace di scoprire il mondo come fanno i bambini. Proprio con una culla, Delbono chiude lo spettacolo. Perché il Vangelo lo dice: dei bambini è il Regno dei Cieli.